Sceneggiatore, giornalista, disegnatore, scrittore. Furio Scarpelli (1919-2010), nella sua vita, è stato tante cose, persino pittore. Ma mai e poi mai un fascista antisemita. Uno dei padri della commedia all’italiana, attraverso i suoi tanti copioni firmati in coppia con Age(nore Incrocci) per Monicelli, Risi e Scola, si è sempre contraddistinto per il suo impegno civile e politico. Un artista grandissimo, al quale non solo il nostro cinema, ma il nostro Paese, la nostra cultura, deve tantissimo. Tuttavia, a distanza di quindici anni dalla sua scomparsa, una calunniosa falsa notizia si aggira per il web: Furio Scarpelli nel 1938 ha aderito al Manifesto

della razza!

«Per lui, antifascista da sempre», racconta il figlio Giacomo, «fu un grande dispiacere. Da allora, io e i miei figli ci battiamo per smentire questa accusa infame, per chiudere definitivamente questa vicenda».

Quando è emersa per la prima volta questa accusa, come ha reagito suo padre Furio, professor Scarpelli?

«Quando mio padre seppe che su alcuni siti – e ripresa anche da uno o due giornali – era apparsa la notizia che il suo nome figurava tra i firmatari del Manifesto della razza, si sbalordì, si addolorò e si infuriò. Per lui, antifascista da sempre, la notizia lo riempì di sdegno. Incaricò immediatamente lo studio legale Cau-Morandi di occuparsene e di diramare diffide formali. Ma all’epoca, forse ancor più di oggi, risalire ai responsabili dei siti era un’impresa quasi impossibile».

Ha idea di come possa essere nata questa fake news?

«Probabilmente tutto è nato da un errore, magari da qualche imprecisione giornalistica poi ripresa e amplificata. Mio padre, a 14 anni, lavorava già come disegnatore e autore di storielle per l’infanzia: era stato costretto a lasciare la scuola perché suo padre Filiberto, anche lui giornalista e illustratore, era morto tragicamente nel 1933, e dovette prendersi, a quell’età, l’impegno di mandare avanti la famiglia. Si rifiutava di partecipare alle attività obbligatorie della gioventù fascista, e un giorno la polizia politica si presentò a casa a cercarlo. Stava disegnando al tavolino, con il pennello in mano. Il poliziotto chiese: “È lui, Scarpelli Furio?”.

Ma mia nonna, con un coraggio tutto materno, rispose che quello era l’altro figlio, Marco. Così riuscì a proteggerlo. È evidente che un ragazzo che rifuggiva alle adunate e sfuggiva alla polizia fascista non poteva certo essere vicino a ideologie razziste.

Effettivamente, nel 1938, Furio Scarpelli non aveva neppure 18 anni (era nato nel dicembre 1919). All’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21, quindi è comunque impensabile che il regime avesse mai potuto prendere in considerazione l’adesione al Manifesto da parte di un ragazzo. Del resto, le altre firme apparse sull’ignobile documento erano tutte autorità del tempo: fisiologi, patologi, docenti di antropologia, demografia e neuropsichiatria.

Eppure, c’è chi ha trovato il coraggio di sostenere un’accusa così assurda. Si tratta del giornalista Giancarlo Lehner – già condannato un paio di volte per diffamazione aggravata – che nel gennaio 2010, in occasione della Giornata della memoria, scrisse su «Il Giornale» un articolo dal titolo Quei ‘difensori della razza’ che passarono all’antifascismo. In questo pezzo sosteneva che anche «nel mondo del teatro e del cinematografo, attori, sceneggiatori e registi parteciparono attivamente alla giustificazione ideologica della legislazione razzistica e antiebraica». E fra costoro i quali furono «sostenitori aggiunti dell’antisemitismo e del razzismo, si ritrovarono, fra gli altri Giorgio Bocca, Enzo Biagi e Furio Scarpelli (...) che poi scamparono alla catastrofe, inserendosi perfettamente nel Pci, nel Psi, nei partiti dell’arco costituzionale, dove ripresero le loro irresistibili carriere».

Alcuni giornali e siti hanno rilanciato questa falsa notizia. Crede ci sia stato un intento politico?

«Sì, credo che dietro ci sia stata anche una volontà denigratoria. Almeno uno o due giornali di destra hanno cavalcato questa falsa accusa, forse felici di poter attaccare figure della cultura italiana attribuendo loro connivenze col fascismo. C’è stato poi un autore, Franco Cuomo, nel suo volume I dieci del 2005, ha ripreso una lista dei cosiddetti 300 aderenti al Manifesto, includendo mio padre. È un errore macroscopico, che purtroppo ha avuto una sua eco e continua a fare danni, anche dopo la sua scomparsa».

Non c’è mai stata una contestazione a Furio Scarpelli dal mondo ebraico. Qual era il suo rapporto con la comunità?

«Mai, almeno per quanto ne sappiamo, il nome di mio padre è stato associato, da ambienti ebraici, al Manifesto della razza. Anzi, da romano, amava ripetere che i veri depositari della tradizione più autentica della città erano proprio gli ebrei romani, presenti nella capitale da oltre duemila anni, e vittime di atroci deportazioni. Non solo non fu mai razzista, ma fu profondamente rispettoso. Basti pensare a Concorrenza sleale, film di Ettore Scola, di cui mio padre fu autore del soggetto e coautore della sceneggiatura: racconta il rapporto tra due commercianti, uno ebreo romano e uno cattolico, che alla prova delle leggi razziali trovano una solidarietà umana più forte della rivalità. Quel film è la dimostrazione più limpida del suo impegno civile. Senza dimenticare, naturalmente, Tutti a casa (1960), dove una ragazza, Silvia Modena (Carla Gravina), viene perseguitata dalle SS perché sospetta ebrea, oppure I compagni (1963), ambientato durante i primi moti operai torinesi, in cui il protagonista, il professor Sinigaglia (Marcello Mastroianni) instilla la coscienza di classe nei lavoratori.

I compagni fu acclamato in USA ed ebbe la candidatura all’Oscar proprio per il copione: fu apprezzato anche e soprattutto perché il personaggio di Sinigaglia era ebreo». 

La verità non sempre fa in tempo a mettersi i pantaloni

«Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe». Il celebre aforisma, erroneamente attribuito a Mark Twain e altre volte a Winston Churchill, dimostra quanto sia difficile, nell’era digitale, contrastare efficacemente una notizia falsa. Fake news pubblicate online minacciano la reputazione delle persone, specie quando sembrano plausibili, ma anche quando non lo sembrano, e rimbalzano senza controllo tra siti, social e fonti apparentemente autorevoli. Il caso Scarpelli è l’ennesimo esempio. Nonostante le smentite della famiglia e le diffide legali, la calunnia riaffiora di quando in quando, ripresa da siti o giornali in cerca di risonanza. Secondo l’indagine Ipsos per Idmo (Italian Digital Media Observatory) del 2024, il 73% degli italiani si ritiene capace di riconoscere una fake news, ma solo il 28% verifica le fonti. Il 45% ammette di condividere notizie false per “smascherarle”, contribuendo involontariamente alla loro diffusione. Nel caso di Furio Scarpelli, l’ironia è che proprio lui, che ha dedicato la sua arte a smascherare le ipocrisie della società italiana, sia rimasto vittima di una delle più moderne forme di mistificazione: la disinformazione digitale. È un meccanismo perverso: l’informazione infondata corre veloce, alimentata da pregiudizi, emotività e superficialità. E mentre la menzogna viaggia spedita, la verità arranca, inciampa, e talvolta non riesce nemmeno a indossare i pantaloni.