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Qualcuno probabilmente ha provato a portarsi via un frammento di calotta cranica, ma è riuscito a ottenere solo una manciata di polvere rossastra vecchia almeno 7 milioni di anni. Perché le ossa fossili non sono come quelle che si vedono nei cartoni animati, ma sono roccia a tutti gli effetti, completamente mineralizzate già da moltissimo tempo, e soltanto un occhio esperto è in grado di comprendere che quella particolare venatura nella pietra è, in realtà, ciò che resta di un essere vivente antichissimo e ormai estinto.
Come i resti di una balena del tardo Miocene scoperti casualmente a Pizzo dopo il distacco di un blocco di arenaria alla base della rupe sulla quale sorge il castello Murat. Una piccola frana che - come raccontò il Quotidiano del Sud qualche giorno fa - ha attirato l’attenzione di Mingo Prostamo, appassionato storico di Briatico, che a sua volta ha allertato il paleontologo Giuseppe Carone, presidente del gruppo paleontologico tropeano che da circa 30 anni si occupa della valorizzazione dei reperti preistorici scoperti nella provincia vibonese.
È stato lui a datare il cetaceo, in base all’età dei sedimenti nel quale sono stati rinvenuti i suoi resti fossili. «Non si tratta di un ritrovamento particolarmente inusuale – spiega – anche se comunque non accade spesso. Sempre a Pizzo, nel 1860, fu ritrovata una mandibola di balena preistorica, oggi conservata a Napoli. Nella città partenopea è conservato un altro fossile di cetaceo trovato sempre nell’800 nella miniera di lignite di Sciconi».
Sebbene a molte domande si potrà dare risposta soltanto dopo ulteriori e più approfondite indagini, secondo Carone alcune ipotesi si possono già formulare. Innanzitutto con riferimento alla profondità del fondale sul quale si è adagiato il corpo della balena, che doveva essere almeno di 200 metri, come dimostrano i resti degli organismi marini pelagici, cioè che vivevano in mare aperto, incastonati nella roccia che è franata. Ricci, molluschi bivalve, coralli, tutti ancora facilmente distinguibili, che generazione dopo generazione hanno contribuito a formare il blocco di arenaria sul quale poggia la città di Pizzo.
Anche sulla causa della morte del grosso animale, il paleontologo vibonese formula un’ipotesi che considera plausibile. «Questi animali era spesso vittime dei grandi squali che popolavano il mare il quel periodo – spiega – non è improbabile, quindi, che anche questo cetaceo sia stato predato. Uno scenario che abbiamo costruito con precisione a Cessaniti, dove è stata rinvenuta una balena risalente allo stesso periodo con 42 denti di squalo nel proprio ventre, a dimostrazione dell’attacco che subì».
Ipotesi evocative che andranno verificate qualora la Sovrintendenza, alla quale Carone ha già inviato una dettagliata relazione, decida di intervenire per condurre uno scavo nel tentativo di recuperare il fossile.
All’autorità preposta alla tutela dei beni archeologici e culturali si è rivolto anche il Comune di Pizzo, con il sindaco Gianluca Callipo che, in attesa di una risposta, invita alla prudenza in merito alla rilevanza del ritrovamento, ma non nasconde la soddisfazione per una scoperta che sta già contribuendo a dare ulteriore visibilità alla già nota cittadina tirrenica.
L'intervista integrale al paleontologo
Enrico De Girolamo
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