La Statale 106 è una pellicola consunta e piena di graffi. Sopra, scorrono le immagini di un film già visto tante, troppe volte. E ogni volta si ha l’impressione di essere condannati a vederlo all’infinito. Una giungla di lamiere e corpi riversi sull’asfalto, oggetti personali che raccontano vite che non ci sono più, e il sangue, da lavare via perché non si noti la macchia anche se la macchia resta, indelebile, pure quando non si vede. Le sirene impazzite, quelle che ogni volta spingono gli abitanti della fascia ionica calabrese a voltare la testa e dire: «Chissà cos’è successo stavolta». Una consuetudine, quasi, alla quale però non ci si abitua mai. Non ci si abitua a questa ferita che si riapre ancora e ancora, ogni volta che un mezzo di soccorso “giunge sul posto” e il personale si mette al lavoro “per prestare le prime cure” – spesso quando ormai non c’è più niente da fare – e “per ripristinare la normale circolazione nel più breve tempo possibile” mentre in qualche casa la normalità è stata spazzata via per sempre e tutto ha preso a girare al contrario, all’improvviso, e il tempo è diventato un’eternità gonfia di disperazione.

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Un altro incidente, ieri sera, ci ha di nuovo costretto a sbarrare gli occhi davanti all’ennesima tragedia. L’ennesima vita spezzata su un’arteria di pericolosità conclamata e proprio lì, dove altre vite avevano terminato il loro cammino. Altre lacrime si erano mescolate al sangue di vittime giovanissime nel punto in cui uno schianto terribile ha ucciso Mattia Porto. Diciannove anni lui, poco di più ne avevano Michela Praino, Eleonora Recchia e Akrem Ayari: 20, 21 e 24. Anni che ancora racchiudono tutte le speranze e i progetti per il futuro e che invece hanno terminato lì la loro corsa, in una curva che ora chiamano “curvone della morte”: il curvone della morte sulla strada della morte.

Uno scontro tra due auto, sette persone coinvolte, e il lutto che tinge di nero l’estate del 2021, il giorno prima di ferragosto. Erano amici Michela, Eleonora e Akrem. Viaggiavano a bordo di una Renault Clio, tornavano dal centro commerciale di Corigliano Rossano, proprio lungo la 106. Diretti a casa. Cassano per due di loro, Castrovillari per l’altra. L’impatto con una Mercedes a poca distanza dal Parco archeologico di Sibari, uno dei più importanti presidi culturali di un territorio che nonostante la ricchezza fatica a emergere. Il nodo delle infrastrutture, di cui la 106 è il funesto emblema, è uno di quelli che soffocano le ambizioni di questa parte della regione.

Diritti negati e dolore sono da sempre intrecciati sulla tormentata lingua d’asfalto che collega da un capo all’altro la costa ionica calabrese, su fino alla Puglia passando per la Basilicata, dove però ha tutt’altro volto. Da su veniva Mattia Porto, alla guida di una Toyota Yaris, di rientro da Napoli assieme a 4 amici. A Papanice, frazione di Crotone, lo aspettava la sua famiglia. Invece anche lui è rimasto lì al curvone, per sempre diciannovenne.

La stessa età aveva Antonella Romeo, vittima anche lei della strage di giovani sulla 106. Viaggiava su una Fiat Panda con Elisa Pelle, Domenico Romeo e Teresa Giorgi: 25, 28 e 35 anni. Morti, tutti e quattro, mentre tornavano al loro paese, San Luca, nella Locride. Uno scontro frontale con un’altra auto a Montauro, pochi chilometri da Catanzaro, non ha lasciato loro scampo. L'addio, il giorno del funerale, ha preso la forma di una corona di palloncini bianchi e dorati volata in cielo.

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Forse un mazzo di fiori sul guardrail ricorderà quest’altra tragedia sul lungo cimitero d’asfalto della 106. La tragedia di Mattia, così simile a tutte le altre. Aspettando ancora un ammodernamento atteso da decenni. Proprio il tratto tra Sibari e Corigliano Rossano è uno di quelli per cui è stato annunciato a breve l’avvio dei lavori. Ma la strada della morte in Calabria è lunga: 415 chilometri per i quali i finanziamenti in arrivo non bastano. Una Statale rimasta troppo indietro, con le sue curve pericolose, la carreggiata stretta, gli innesti a raso, l’illuminazione inesistente e i centri abitati attraversati nel mezzo. Una Statale che lo Stato ha dimenticato per tanto, troppo tempo. Sulla quale si continua a morire con una frequenza spaventosa, costringendoci a rivedere ancora e ancora lo stesso film che non vorremmo più guardare.