Si chiude la vicenda che aveva causato scosso le fondamenta dell’amministrazione del capoluogo. Al centro della vicenda la gestione della “Vinicio Caliò” e i favori chiesti dal politico
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Estinto il reato per intervenuta decorrenza dei termini di prescrizione nel processo scaturito dall’inchiesta Aquam in Ore. Questa è la decisione del Tribunale di Catanzaro, Prima Sezione penale, che ha così liberato gli imputati Antonio Lagonia, difeso dall’avvocato Antonio Lomonaco e Salvatore Veraldi, difeso dall’avvocato Helga Procopio, dall’accusa di traffico di influenze illecite.
Unico colpevole di questa nota vicenda, che aveva scosso le fondamenta dell’amministrazione del capoluogo di regione, resta quindi Giampaolo Mungo, ex assessore del Comune di Catanzaro, dimessosi dalla carica dopo pochi mesi dal suo insediamento, e condannato definitivamente alla pena di 9 mesi di reclusione, a seguito dell’inammissibilità del ricorso avanzato in Cassazione.
Il procedimento trae origine dall’inchiesta condotta dalla Procura della Repubblica di Catanzaro nei confronti dell’ex titolare della delega allo Sport, che avvantaggiandosi della sfera di influenza derivante dalla sua carica di assessore, si era fatto promettere - e nei fatti aveva ottenuto - diverse utilità, tra cui una somma di danaro pari, almeno, a circa 20mila euro.
A carico del Mungo era stato ordinato il sequestro della predetta somma di danaro giacché ritenuta il prezzo del reato per i fatti connessi alla gestione della piscina comunale “Vinicio Caliò”. Tra le altre utilità, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, e successivamente accertato in sentenza, vi era quella secondo cui Mungo era riuscito ad ottenere l’assunzione della figlia Cristina nella struttura comunale.
Nella denuncia sporta da Lagonia contro Mungo, era stata ripercorsa tutta la vicenda: «Dopo le feste di Capodanno 2015, Mungo mi chiamò per raggiungerlo al Ciaccio dove lavorava - denunziava il Lagonia -. Lo feci e lì mi chiese improvvisamente di dargli la somma di 3mila euro. Non capii e pensai che mi stesse chiedendo un prestito, sennonché Mungo mi disse che se volevo non avere problemi con la piscina avrei dovuto fare così, che sapevo benissimo come funzionava in questi casi. Mi disse con tono intimidatorio: “Antonio quando ti chiedo qualcosa dammela e basta, perché hai capito bene come funziona. Se mollo io, tu il giorno dopo sei fuori”».
L’ex assessore Mungo aveva scelto di farsi giudicare nelle forme del rito abbreviato e il giudice, al momento della condanna - ridotta per la scelta del rito -, aveva inoltre negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche «in ragione della condotta concretamente ascritta all’imputato, dimostrativa di una peculiare spregiudicatezza nel perseguire il proposito delittuoso, approfittando della propria posizione, maturata nel contesto amministrativo e politico, per finalità di profitto estranee alla tutela del bene pubblico».