I dettagli sono contenuti nel fermo dell'operazione che ha portato all'arresto di 18 persone accusate di avere intrecciato legami con la cosca di Sinopoli. Dalle carte emerge che il primo cittadino avrebbe contattato il prete del paese aspromontano per smentire le voci a suo carico
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«Non può non colpire che un uomo che svolgeva funzione pubblica partecipasse a riunioni di ‘ndrangheta coi vertici della cosca e parlasse e si esprimesse con il medesimo linguaggio. Colpiva il fatto che si trattasse, di fatto, di uno di loro». È lapidario il commento scritto dal pm antimafia Giulia Pantano che, insieme al procuratore aggiunto Gaetano Paci, ha firmato il fermo con cui è finito in carcere Francesco Rossi con l’accusa di associazione mafiosa nel blitz, messo a segno dai Carabinieri nei giorni scorsi denominato “Iris”. In tutto sono finiti in manette 18 persone accusate, a vario titolo, di gravi come appunto l’appartenenza alla cosca Alvaro di Sinopoli e poi estorsione e trasferimento fraudolento di valori.
Per la Dda non c’è dubbio: l’allora vicesindaco del comune, che poi diverrà primo cittadino e consigliere della città metropolitana reggina, era il «referente politico della cosca Alvaro in seno al comune di Delianuova-eletto con i voti della mafia e “collocato” nella carica pubblica dalla ‘ndrangheta per farne gli interessi». A Rossi quindi viene contestato la partecipazione alla cosca di Sinopoli e non un ruolo di concorrente esterno. Una presunta intraneità contestata grazie alle numerose intercettazioni captate all’interno della “casetta” ossia il casolare in contrada Scifà, il luogo nevralgico per gli Alvaro, dove in processione sfilavano mafiosi e referenti. Le cimici dell’Arma infatti hanno documentato continue riunioni, mascherate da “mangiate”, e un “andirivieni” costante di esponenti di tutti i mandamenti di ‘ndrangheta reggina. Al casolare è stata registrata la presenza delle ‘ndrine “Pelle-Gambazza” di San Luca, dei Mollica di Africo, dei Rugolino di Catona, quartiere alla periferia Nord di Reggio, e poi degli Ietto di Natile di Careri, fino ai Condello di Varapodio, i De Stefano, cosca egemone del reggino, e ovviamente dei clan più influenti della Piana come i Guadagnigno e i “Papalia” di Delianuova, i Mazzagatti di Oppido Mamertina e La Rosa di Giffone. Un vero e proprio “quartier generale” dove venivano condivise le strategie criminali, venivano distribuiti appalti e lavori da accaparrare con estorsioni e infiltrazioni nei cantieri.
Rossi: «Amico nostro»
Ed è proprio il 3 ottobre del 2013 che le microspie e le videocamere piazzate dai militari dell’Arma intercetteranno registreranno Rossi, all’interno del casolare di contrada Scifà, “fortino” degli Alvaro. Un uomo della ‘ndrina si rivolgerà ai commensali appellandoli “picciotti di malavita”, simbolo che di fatto quella “mangiata” era un «un summit tra mondo imprenditoriale-politico e mafioso». Per la Dda quell’incontro aveva uno scopo ben preciso: «secondo gli accordi pre-elettorali a suo tempo stilati-aveva richiesto un intervento della ‘ndrina di appartenenza sulla famiglia Tripodi, rea di ostacolare la gestione amministrativa, adducendo presunte violazioni dei patti da parte del Rossi.
Quest’ultimo in pratica- chiosano i pm- aveva deciso di portare sul tavolo dei sui interlocutori mafiosi le diverse questioni che avevano generato attrito con i Tripodi, affinché il “Tribunale della ‘ndrangheta degli Alvaro”, rappresentato dalle figure apicali della cosca, si esprimesse sul se le opposizioni create dai Tripodi avessero una qualche base giustificativa concreta o piuttosto fossero meri pretesti, per condurre alla caduta del governo locale e aprire una pagina politica del paese, nel tentativo di porsi poi in prima persona alla guida di Delianuova». Una “macchinazione” che Rossi non avrebbe potuto sopportare perché, stando alle deduzioni investigative, la sua permanenza all’interno del Comune era necessaria per garantire l’infiltrazione mafiosa degli Alvaro. I presunti contrasti con la famiglia Tripodi sarebbero sorti per la definizione del piano regolatore comunale e della lottizzazione della zona di “Carmelia”.
«Rossi rivendicava a gran voce di essere un uomo della cosca-scrivono i pm- e di aver sempre tutelato gli interessi della ‘ndrina Alvaro. Sentite le ragioni del politico e ritenuto che nella gestione della cosa pubblica non fosse mai stato compiuto un solo atto che frustrasse le aspettative della ‘ndrangheta o che si ponesse in aperta violazione con i precedenti accordi elettorali, Paolo Alvaro sentenziava che avrebbe organizzato un incontro chiarificatore con i Tripodi e che avrebbe loro rappresentato che, per tacciare di “inadempienza” il politico della ‘ndrina Franco Rossi, occorreva portare le “prove” a sostegno di quell’accusa infamante». Nelle intercettazioni fra i presunti membri della cosca Alvaro più volte gli stessi lo appelleranno quale “amico nostro” e che la sua candidatura, e successiva elezione, era stata presumibilmente voltua e sostenuta dalla ‘ndrina che rimaneva l’unica “titolata” anche a decretarne la fine della carriera politica».
Totale asservimento alla cosca
Tanti nel corso degli ultimi anni sono stati gli attentati dinamitardi compiuti ai danni del municipio, e anche dei dipendenti comunali di Delianuova. In questo contesto, secondo quanto emerge dall’inchiesta “Iris”, «Francesco Rossi, all’epoca vice sindaco con deleghe ai lavori pubblici, piuttosto che rimettere il suo mandato o denunciare quanto stava avvenendo alle forze di polizia aveva cercato di trovare una soluzione coinvolgendo la famiglia Alvaro». Come quando raccontò di essere intervenuto per dirimere una lite tra due uomini all’interno del palazzo comunale. Gli inquirenti parlano di un “pestaggio” che lo stesso Rossi intercettato diceva: “gli hanno menanto con una chiave all’epoca”. «Non poteva non colpire che Rossi, al corrente dell’aggressione perché allertato ed intervenuto sul posto, pur rivestendo una funzione e carica pubblica, non aveva denunciato l’accaduto ma, aveva scelto di intercedere direttamente insieme ad un altro soggetto per “risolvere” la questione. In quell’occasione, chiaramente Rossi ha dimenticato la sua veste istituzionale e ha preferito appoggiare e seguire attivamente i modi di fare tipicamente mafiosi».
La corsa per la smentita al prete di Delianuova
Per ribadire come fosse necessario porre un argine alla «libertà di azione dei Tripod»i,in una conversazione Rossi ha affermato che « diversamente, questi, sarebbero diventati padroni incontrastati anche tenuto conto che avevano ben lavorato per offuscarne la sua immagine». Ecco l’intercettazione: “l’ultimo, l’ultimo ostacolo…cacciando questo ostacolo qua loro hanno tutto libero..da qua a Bianco..ed hanno plagiato pure il prete. Io ho parlato, con don Bruno mi sono visto. Loro lo hanno plagiato, plagiato, gli ha raccontato fesserie in tutti i modi... che abbiamo rubato, che so cosa, che poi al di là di ogni cosa tu…che prendi e vai e gli dici agli altri, che quegli altri rubano!”. Rossi quindi si preoccupava anche delle voci che circolavano in paese e «riportatigli dal prete di Delianuova, Don Bruno, scrive la Dda, chiaramente veicolate dalla famiglia Tripodi per cercare di screditare l’amministrazione comunale ed avere carta bianca nelle gestione delle cose». “Tragedie” verranno appellate queste dinamiche dai partecipanti alla riunione. Ma c’è di più. «Rossi in pratica richiamava ciò che aveva narrato in precedenza- ovvero che i Tripodi avevano preso contatti con Don Bruno- per raccontare di abusi della pubblica amministrazione comunale e avevano messo in giro la voce inerente il regalo di un’autovettura ad un maresciallo del territorio». Stando quindi alle conversazioni intercettate l’ex primo cittadino si sarebbe prodigato per andare a chiarire la situazione. Una situazione che ha portato gli inquirenti ad arrestarlo in quanto «durante lo svolgimento del suo mandato si era sempre mosso per favorire in relazione ad appalti e finanziamenti gli affiliati alla cosca».