Non sono appalti semplici, quelli boschivi. Ci si muove in un settore ricco di tecnicismi e burocrazia. Ma un settore particolarmente lucroso. E davanti ai soldi, non c’è complessità che tenga. I clan erano bene attrezzati anche su questo fronte, come emerge dall’inchiesta “Imponimento” che ha permesso alla Distrettuale di Catanzaro e alla Guardia di finanza di smantellare il sistema d’affari illeciti messo su dal clan Anello di Filadelfia.

 

L’analisi effettuata dagli investigatori è desolante: «Fa emergere – si legge nel decreto di fermo firmato dal procuratore Nicola Gratteri e dai suoi uomini – un quadro entro il quale le procedure d’appalto risultano “compromesse” sin dai primi momenti, assistendo, infine, ad aste che vanno deserte, a rimodulazioni delle operazioni di gara che portano ad aggiudicazioni a trattativa privata e/o che vedono concorrere un’unica ditta e ad ingerenze di varia natura da parte di soggetti le cui normali funzioni non trovano corrispondenza in nessun ruolo previsto nell’ambito della struttura di gara stessa».

 

Il “meccanismo” svelato dai pentiti

A sintetizzare il meccanismo è il collaboratore Enzo Taverniti, come da verbale allegato all’operazione “Luce nei boschi”: «…Praticamente funziona così, chi presenta per primo la busta, viene chiamato e non fanno presentare nessuno ad aprire la busta. Quindi automaticamente i boschi restano a queste persone qua». Alcuni episodi emblematici della forza intimidatrice degli Anello li racconta un altro collaboratore, Francesco Michienzi, a febbraio 2018.

«La cosca Anello ha avuto sempre interesse nel settore dei tagli boschivi nel senso che Rocco Anello (in foto) decideva chi nel suo territorio dovesse occuparsi dei tagli boschivi. Per quanto concerne i tagli da privati il monopolista era tale Mallamace Francesco di Vibo Valentia. Ricordo che allorché Rocco era detenuto per l’operazione Prima, Mallamace mi portò un bigliettino vergato da Rocco Anello ricevuto dalla di lui moglie Angela Bartucca. Nel bigliettino c’era scritto che dovevamo rispettare Mallamace Francesco e dovevamo dare conto di tutto ciò che facevamo al figlio di Rocco, Francescantonio. Portando a me e a Vincenzino Fruci, questo bigliettino, Francesco Mallamace era legittimato a richiederci di allontanare dal territorio della cosca Anello l’impresa “Ardimentoso Legnami” che stava tagliando nella zona ex Sir di contrada Palazzo sulla SS 18, alle spalle dell’aeroporto lametino.

 

Ricordo che l’Ardimentoso subì il furto di una serie di mezzi pesanti. In particolare io rubai un trattore, cappottai un altro mezzo e gli chiesi a titolo estorsivo 10.000 euro. L’appoggio che fornivamo a Mallamace era relativo più che altro all’accaparramento agli alberi, specie cipressi, da tagliare, in quanto Mallamace riforniva la centrale a biomassa di Rende. Ricordo che sempre nel corso della detenzione per il processo “Prima” dei fratelli Anello, avvicinai l’imprenditore agricolo Polito, chiedendogli di farci tagliare un cipresseto frangiflutto. Polito non poteva opporsi, pertanto Mallamace tagliò i cipressi senza riconoscergli alcunché».

 

LEGGI ANCHE: Imponimento, la mafia sanguinaria degli Anello a cui politici e imprenditori si inchinavano

La spartizione del territorio

Il territorio compreso tra le Preserre vibonesi e quelle catanzaresi, stando alla ricostruzione operata dagli inquirenti, è di fatto suddiviso fra tre cosche: le famiglie Iozzo-Chiefari con competenza sui Comuni montani di Chiaravalle Centrale, San Vito sullo Ionio, Cenadi, Gagliato e Petrizzi. La famiglia Bruno con competenza sui Comuni di Vallefiorita, Amaroni, Girifalco, Palermiti, Squillace, Olivadi, Centrache e Cenadi. E la famiglia Anello con competenza sui Comuni di Filadelfia, Polia, Monterosso Calabro, Capistrano e Cenadi. Le due famiglie Chiefari e Iozzo «sono alleate tanto da essere considerate un’unica cosca e federata con i Gallace che hanno affiancato nel contrasto con le cosche vicine a Vallelunga Damiano assassinato nel mese di settembre del 2009».

Lo strappo tra boss

Ed è proprio sugli affari boschivi che si sarebbe consumato lo strappo tra due pezzi da novanta della ‘ndrangheta vibonese: Rocco Anello e Damiano Vallelunga (in foto). Questo proprio perché Anello – come raccontato anche dal collaboratore Andrea Mantella – avrebbe negato un appalto a Vincenzo Rubino. Spiega Mantella: «Gli Anello erano in rottura con Vito Tolone e con Gianni Bruno, così come con tutti quelli così detti della montagna e quindi con i Vallelunga. Con i Vallelunga a fronte di rapporti buoni nei primi anni 90, vi erano stati dei contrasti. Ricordo in particolare quanto mi è stato riferito dai Bonavota in occasione di un matrimonio, verificatosi qualche tempo prima della morte di Damiano Vallelunga. Il figlio di Anello Rocco si era avvicinato a Damiano Vallelunga per salutarlo, Damiano Vallelunga gli aveva risposto di non conoscerlo e gli aveva contestato il fatto che avessero emarginato l’impresa avente ad oggetto lavori boschivi, di Vincenzo Rubino, nonché i cattivi rapporti con quelli della montagna, tutto nell’ottica di un’espansione del loro controllo».