«Quella di Paolo Bellini è una figura che riaffiora più volte in un trentennio di storia italiana, sempre in correlazione a vicende criminali caratterizzate da opacità ed efferatezza, ogni volta in una veste diversa». Sono le parole utilizzate dalla corte d’Assise nelle 1700 pagine di motivazioni che lo condannano all’ergastolo per la strage di Bologna, a spiegare bene la figura di uno dei personaggi più oscuri degli ultimi decenni del ‘900 italiano.

Esponente della destra eversiva, assassino reo confesso, elemento di collegamento tra Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, massoneria e apparati deviati dello Stato, due volte inserito nel programma di protezione testimoni, killer protagonista di una faida iniziata a Cutro ed esplosa nel cuore dell’Emilia: il “quarto uomo” della strage di Bologna Paolo Bellini, condannato a fine pena mai per la bomba che il 2 agosto del 1980 distrusse la sala d’attesa della stazione provocando 85 morti e oltre 200 feriti, è entrato in alcune delle pagine più controverse della storia della Repubblica. Una storia che lo lega a doppio filo anche al crimine organizzato calabrese.

Protagonista di clamorose fughe all’estero e spettacolari furti di opere d’arte, Bellini viene arrestato in Toscana nel gennaio del 1988 per l’omicidio di un suo ex sodale. Ed è nel carcere di Prato che «Bellini – scrivono i giudici di Bologna – entrerà in contatto e diventerà amico di Nicola Vasapollo, appartenente ad una ‘ndrina di Reggio Emilia, detenuto per spaccio di sostanze stupefacenti». Un’amicizia destinata a durare nel tempo e che segnerà, pur non essendo mai formalmente affiliato, l’ingresso del terrorista nero nel mondo della ‘ndrangheta per cui agirà come killer in due diversi archi temporali separati da un periodo trascorso nei panni di collaboratore di giustizia. «Il primo episodio risale al 6 maggio del 1990 – si legge nelle motivazioni del processo bolognese – quando Bellini, insieme ad Antonio Valerio – soggetto strettamente legato a Nicola Vasapollo e alla famiglia Dragone – si rese responsabile del tentato omicidio di Antonino D’Angelo, un pregiudicato palermitano attivo nello spaccio di stupefacenti e in contrasto, per questi motivi, con le famiglie Vasapollo-Dragone». Passano pochi mesi, siamo nel settembre del ‘90, e Bellini riceve dalla cosca un nuovo incarico, questa volta direttamente in Calabria: a cadere sotto i colpi del sicario è Cosimo Martina, giustiziato a Crotone «per una questione di viabilità tra lo stesso e Antonio Valerio».

E poi l’omicidio di Graziano Iori, nell’aprile del ’92 «sul cui movente Bellini fornì due versioni diverse» e quello, molto più pesante, di Paolino Lagrotteria, ammazzato a Cutro nell’agosto dello stesso anno in un blitz in cui restò gravemente ferita anche sua moglie. Il delitto Lagrotteria, protetto dei Ciampà, porterà la faida calabrese nel cuore di Reggio Emilia. In risposta a questo omicidio infatti i Dragone, alleati con i Grande Aracri, faranno ammazzare, nell’autunno dello stesso anno, Giuseppe Ruggiero e Nicola Vasapollo, l’uomo che aveva diviso il carcere con l’ex esponente di Avanguardia Nazionale e ne era diventato amico. La risposta di Bellini a questo doppio omicidio sarà immediata. Nel novembre del 1992 vengono ammazzati, in provincia di Mantova, Domenico Scida e Maurizio Puca: il primo legato alla famiglia Dragone, il secondo «occasionalmente presente, era un testimone da eliminare».

Uscito indenne da questa scia di sangue, Bellini viene nuovamente incarcerato nel 1993 per un residuo di pena e, a maggio del ’95, entra in un programma di protezione come testimone in merito alle indagini sulle bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993. Una collaborazione durata fino al 1997 quando Bellini lascia il programma di protezione e riallaccia i contatti con i vecchi amici della ‘ndrangheta. Il 9 dicembre del ’98 viene ucciso nell’ambito della faida, Giuseppe Abramo e, in risposta, Bellini si renderà protagonista di uno degli episodi più eclatanti della guerra scoppiata in Calabria e allargatasi in Emilia. Tre giorni dopo infatti, lo stesso terrorista nero, lancerà una bomba a mano di origine serba all’interno del bar Pendolino (alla periferia di Reggio Emilia) «frequentato prevalentemente da calabresi che si opponevano alla famiglia Vasapollo» ferendo in modo grave 13 persone: «un azione di violenza indiscriminata – annotano i giudici – poiché nel luogo bersagliato erano presenti anche soggetti estranei che nulla avevano a che vedere con gli obbiettivi per cui aveva lanciato l’ordigno esplosivo».

E poi l’omicidio del giostraio Oscar Truzzi, la cui unica colpa era stata quella di assomigliare a Giuseppe Sarcone, esponente della parte avversa a cui Bellini sparò “per errore”, fino al tentato omicidio dell’ex amico Antonio Valerio (ora collaboratore di giustizia), reo di essersi avvicinato al clan dei Dragone. Bellini gli sparò diverse volte, colpendolo sempre, ma Valerio riuscì miracolosamente a salvarsi. Una lunga scia di sangue che mischia il terrorismo nero, l’eversione di destra e la criminalità organizzata: una scia di sangue su cui i giudici della Corte d’Assise di Bologna, potrebbero avere chiuso il cerchio.