«Non sono mai stato affiliato alla ’ndrangheta ma non nego di essere stato vicino a qualcuno di loro. Ho però sempre condannato i loro atteggiamenti. Non sono mai stato un capo e non sono stato condannato per essere un capo. La ’ndrangheta fa schifo». L’11 dicembre 2024 D’Onofrio apre l’interrogatorio davanti ai pm della Dda di Torino Marco Sanini e Paolo Toso con una frase («la ’ndrangheta fa schifo») che sembra presa da un comizio elettorale e darà ai giornali, qualche mese dopo, un ottimo titolo.

Siamo soltanto alle dichiarazioni spontanee: in quel colloquio nel carcere di Rovigo l’uomo che i magistrati di Torino considerano il capo delle cosche calabresi in Piemonte racconta molto di più. D’Onofrio è stato, in passato, un fantasma: latitante per ragioni politiche, poi detenuto, infine pensionato al centro di mille trame che portato - quasi tutte - in Calabria. Non soltanto nel Vibonese, a casa sua (è originario di Mileto), ma più in generale in Calabria, grazie ai contatti stretti con i compaesani nel suo lungo peregrinare tra le carceri e la “seconda vita” al Nord.

D’Onofrio entra ed esce anche da un’altra delle storie simbolo della penetrazione della mafia in Piemonte: l’omicidio del giudice Bruno Caccia. Un primo procedimento a suo carico è stato archiviato nel 2003, ora i sospetti hanno ripreso ad addensarsi su di lui dopo il ritrovamento di una pistola nascosta all’interno di un muro in occasione del suo arresto nell’inchiesta Factotum. L’arma sarebbe compatibile con quella utilizzata per uccidere il magistrato. D’Onofrio nega tutto: dice di aver tenuto la pistola per paura che arrivassero dei colpi «da certi paesi della Calabria».

L’attacco ai pentiti: «Pasquino e Mantella si inventano tutto»

I pentiti che parlano di lui, invece, «si inventano tutto».

Primo tra tutti Vincenzo Pasquino, ex broker della cocaina che di recente ha tratteggiato (anche) rapporti pericolosi tra avvocati e magistrati disponibili a raccogliere e rivelare notizie coperte dal segreto per anticiparle alle cosche.

Per D’Onofrio, quando parla di lui Pasquino farebbe grande confusione: «Non so come faccia a dire cose che non quadrano rispetto agli anni di cui parla; si inventa cose, non l’ho mai conosciuto. Dice ad esempio che mi aveva visto nel 2012, ma io ero già in carcere da un pezzo. Stessa cosa con riguardo al 2014. Poi mi dice che venne a farmi le condoglianze nel 2014-2015, invece mia moglie è morta nel 2017».

Anche del pentito Andrea Mantella D’Onofrio dice che inventa: «Ne ha rese diverse di dichiarazioni su di me. Per esempio dice che ho ucciso Caccia. Dice delle cose incredibili. L’ho conosciuto durante una detenzione durata 20 giorni, non un giorno solo come dice lui».

Il filo rosso tra D’Onofrio e l’ex latitante Pasquale Bonavota

Per essere uno a cui la ’ndrangheta fa schifo, D’Onofrio ne ha di relazioni con ambienti vicini alla criminalità organizzata calabrese. Spiega di aver conosciuto Domenico Ceravolo, sindacalista e presunto factotum delle cosche in Piemonte, attraverso Saverio Razionale, considerato il capoclan di San Gregorio d’Ippona. Ha un’amicizia di lunga data con con Antonio Serratore, ritenuto vicino al clan Bonavota. I pm sottopongono a D’Onofrio una conversazione tra Serratore e Pasquale Bonavota, il boss latitante arrestato a Genova mentre pregava in Cattedrale. I due sembrano proprio parlare di lui. L’ex primula rossa chiede l’indirizzo di «compare Franco» e Serratore risponde «via Bellini Moncalieri».

«Non conosco Pasquale Bonavota», risponde D’Onofrio.

«Come mai ci sono le sue foto nel suo computer?», incalzano i magistrati.

«Volevo tenere alcuni articoli di giornale, perché alcuni parlavano anche di me». Poi aggiunge: «Non so se in questo articolo parlassero di me».

Domenico Cartisano è uno dei nomi usati da Bonavota nel corso della latitanza, per affittare casa. Ed è il cugino di una donna che lavora in una clinica, è molto amica della compagna di D’Onofrio e prenota per lui gli esami medici. Coincidenze alle quali l’uomo non sa «dare una spiegazione».

«Ceravolo è un amico, sono anche iscritto alla Cisl»

Ricorda, invece, come sono cominciati i suoi contatti con alcuni uomini legati alla ’ndrangheta: «Ho cominciato a conoscere questi signori anni fa. Mi diedi alla latitanza per reati politici, nell'86 mi hanno arrestato in Svizzera, sono uscito per semilibertà e ho finito di scontare nel 94. Ho conosciuto molti calabresi in carcere».

Ceravolo, imputato chiave del processo Factotum, lo considera «un amico», dice di avergli fatto un prestito «di 1500 o 2000 euro per fare un compromesso per un immobile» e aggiunge di essere «anche iscritto al sindacato Cisl (di cui Ceravolo era un dirigente, ndr), non so di quale categoria».

«Gli ‘ndranghetisti frequentati? Mi sono fidato»

L’interrogatorio è un lungo elenco di questioni di ’ndrangheta che, a Torino, sono arrivate in un modo o nell’altro sull’uscio di Franco D’Onofrio e delle quali lui si sarebbe occupato. Lui spiega che i calabresi gli si rivolgevano perché conosce un po’ tutti e ribadisce che la ’ndrangheta gli «fa schifo» anche se non si è mai rivolto ai carabinieri per raccontare quel via vai di corregionali che gli riferiva questioni non proprio commendevoli («cosa potevo fare io?», chiede). Della mafia calabrese, dice, gli fa schifo «tutto quello che questi possono fare: droga, estorsioni, sopraffazione delle persone, cose che io non ho mai fatto. Tutto quello che ho fatto l’ho sempre pagato».

I magistrati della Dda di Torino, però, insistono sui suoi legami con i clan: «Siccome a lei fa schifo la ’ndrangheta come mai ha avuto rapporti con Giuseppe Galati, Saverio Razionale, Antonio Serratore e altri, che risultano tutti appartenere alla ’ndrangheta?».

«Li conoscevo da prima delle sentenze», risponde D’Onofrio.

Nuova domanda: «Ma lei ha continuato le frequentazioni anche dopo le condanne. Perché? Serratore era già stato condannato come appartenente alla ’ndrangheta e per altri gravi reati. Perché lei invece di dirgli di lasciar stare la ’ndrangheta che fa schifo si è occupato di riscuotere i suoi crediti?».

Risposta: «Perché mi sono fidato».

«E che cosa la spingeva a fidarsi?».

«Non lo so spiegare, è rimasta un'amicizia. Mi pareva una cosa lecita».