Nelle motivazioni della sentenza stralcio Reventinum i giudici tratteggiano il profilo del killer della cosca. Ha usato la sua «immagine immacolata per compiere uno dopo l'altro i delitti e aiutare il clan a raggiungere i suoi scopi»
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Un «patto di sangue» tra Luciano Scalise e Marco Gallo. Quest'ultimo non un mero killer assoldato all’occasione ma «uomo di Scalise che opera nella cosca e per la cosca al suo interno». È questa la motivazione con cui il Tribunale di Lamezia Terme ha condannato lo scorso ottobre Marco Gallo a 15 anni di carcere per associazione mafiosa.
Inchiesta Reventinum
Il processo è uno stralcio dell’inchiesta Reventinum istruita contro Pino e Luciano Scalise, e altri presunti appartenenti all’omonima cosca, per una serie di episodi estorsivi commessi nei comuni del Reventino contro imprenditori locali. E tra gli appartenenti al clan figura anche Marco Gallo, già condannato per gli omicidi di Gregorio Mezzatesta e dell’avvocato lametino Francesco Pagliuso, agguati che avrebbe, appunto, compiuto non come killer occasionale ma con una «condotta partecipativa».
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Non un rapporto di amicizia
I rapporti tra Marco Gallo e Luciano Scalise, secondo i giudici del Tribunale di Lamezia Terme, «hanno una origine remota» e «sono assolutamente incompatibili con un rapporto di mera amicizia» si legge nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Pino e Luciano Scalise rispettivamente a 11 e 12 anni di reclusione.
La sete di vendetta
Un rapporto che assume nel corso degli anni «i connotati di una vera e propria cooperazione alla vita e al raggiungimento degli scopi della ‘ndrina»; soprattutto, a partire dal momento in cui Luciano Scalise prende le redini del clan e si pone quale principale obiettivo quello di vendicare il duplice omicidio di Giovanni Vescio e Francesco Iannazzo, commesso da Domenico Mezzatesta.
Patto di sangue
È a questo punto, secondo la ricostruzione, che quell’amicizia assume la forma di «un patto di sangue» e gli incontri diventano occasioni per pianificare i «propositi omicidiari»: quello nei confronti di Francesco Pagliuso e successivamente di Gregorio Mezzatesta, avvenuti entrambi sotto l’egida del clan. Marco Gallo non aveva rapporti diretti con le due vittime: «il movente e la decisione dell’uccisione non può trovare altra diversa ricostruzione» annotano i giudizi.
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Una paura devastante
Gregorio Mezzatesta «era l’unico componente della famiglia residuo che poteva essere più agevolmente colpito anche come monito per chi era in carcere». Nelle motivazioni della sentenza si riporta, tra l'altro, il clima di terrore ingenerato nella famiglia dopo l'esecuzione dell'ex ferroviere a Catanzaro. «Una paura talmente profonda e devastante da spingere l'altro fratello di Domenico Mezzatesta, preoccupato per la propria incolumità a dare in escandescenze, a fare uso smodato di psicofarmaci e a mandare i propri figli dallo zio in carcere per avere istruzione su come muoversi e cosa fare per poter sopravvivere».
Matrice mafiosa
I giudici rilevano come non fosse «emerso alcun rapporto diretto tra Gallo, autore materiale del delitto, e la sua vittima e nessuna ragione per la quale il Gallo potesse volere la morte di Mezzatesta, la cui provenienza familiare invece rende immediatamente percepibile la matrice mafiosa dell’omicidio».
Captatori di microspie
A tali conclusioni giungono i giudici anche in considerazione dei timori nutriti da Luciano Scalise e dai «suoi sodali» nei giorni immediatamente successivi all’arresto di Marco Gallo, «che potesse parlare», al punto da indurre il capo clan a dotarsi di captatori di microspie. Ma ad avvalorare questa versione anche la frequenza delle visite di Gallo al bar del Reventino e rapporti di natura economica tra i due.
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Il prestanome
Proprio il killer sarebbe stato prestanome del clan per l’acquisto di un terreno a Decollatura «in prossimità di altri immobili di proprietà di Luciano Scalise e quindi lontano dal domicilio di Gallo il quale peraltro nella zona non aveva interessi che potessero giustificare l’acquisto». Al contrario, la compravendita si inquadra, secondo la ricostruzione, nell’«attività svolta dalla famiglia Scalise, attraverso la quale perseguiva l’obiettivo di sottomettere imprese nel settore attraverso estorsioni e imponendosi nei lavori».
La finta compravendita
Un appezzamento di terra successivamente restituito a colui il quale sarebbe stato il reale proprietario attraverso un testamento ritrovato nel computer Gallo, intendendo «verosimilmente ripristinare pur senza farne cenno la reale proprietà» scrivono i giudici.
Le ultime volontà
Il documento nel quale il killer avrebbe espresso le sue volontà, e oggetto anche di un colloquio intercettato in carcere con i suoi familiari, peri giudici sarebbe una manifestazione della «sua obbedienza» e non il gesto di «gratitudine» verso un amico che lo avrebbe aiutato a superare la crisi coniugale con la moglie, come ebbe modo di spiegare Gallo ai suoi genitori una volta appreso del lascito. Nel testamentario, oltre al terreno anche l’indennizzo di una polizza assicurativa sulla vita che, annotano i giudici, «non trova giustificazione alcuna se non quella di offrire ulteriore ed estremo apporto in favore del beneficiario».
Immagine immacolata
Per i giudici, quindi Marco Gallo avrebbe messo a disposizione degli obiettivi della cosca la sua capacità di usare le armi, il suo sangue freddo e la sua immagine immacolata» per compiere «uno dopo l’altro, gli omicidi che più di tutti premevano alla cosca, ossia quello dell’avvocato (Pagliuso) che tradendo la fiducia a suo tempo concessagli aveva assunto il patrocinio dei rivali consentendone l’alleggerimento della posizione processuale, così sfidando anche la cosca Iannazzo egemone nel quartiere di Sambiase, alla quale gli Scalise erano collegati e quella del fratello (Gregorio Mezzatesta) del principale nemico (Domenico Mezzatesta) e coautore della dell’uccisione di componenti della famiglia Iannazzo». Una vendetta negatagli a causa dei consigli del «suo avvocato che inducendolo a costituirsi lo aveva messo in condizione di non essere più colpito a morte».