di Nunzio Raimondi*

 

L’occasione di un bell’articolo, apparso su il Manifesto a firma di Stefano Musolino, suggerisce di tornare su un tema, molto avvertito, d’inossidabile attualità.

Nel seno del più grande tema dei rapporti fra giustizia ed informazione, più nascosto ma custodiente il nucleo essenziale del dibattito, sta il rapporto fra diritto e giustificazione penale. Perché a produrre il “messianismo della repressione penale”, muove l’idea, profondamente sbagliata, che il diritto penale della retribuzione sia in grado non soltanto di elidere il delitto, la ferita - di cui parlava Antolisei - portata al corpo sociale, ma al tempo stesso di trasformare e rinnovare la società (da “smontare e rimontare come un Lego”, come ha affermato, di recente, il Procuratore della Repubblica di Catanzaro).

In questo ambito è comprensibile che la pena trovi una sua giustificazione ragionevole ma, altrettanto corretto, è da dire che il diritto penale non possiede strumenti adeguati per garantire una rigenerazione sociale. Ecco perché sento di sottoscrivere il ragionamento del dr. Musolino nella parte in cui afferma: “Con dolo o con colpa si alimenta il messianismo della repressione penale, torcendola a finalità che le sono estranee e trascurando i devastanti effetti personali, economici e, quindi, sociali e culturali che ne discendono. E si perde di vista l’essenza dei problemi economici e culturali che sono la causa della pervicace resistenza della ‘ndrangheta, deresponsabilizzando le istituzioni chiamate a creare le condizioni per investimenti strutturali che possano risollevare la Calabria dalla sua atavica povertà economica”.

E già, se il diritto penale può curare gli effetti, le conseguenze del crimine, lo stesso non può dirsi per le cause.

A tal proposito - e lungi dal suggerire soluzioni appropriate, che pure sono state ben individuate in sede sociologica - preme qui evidenziare che la concezione meramente repressiva della sanzione, sta stretta anche al diritto penale.

Non da oggi - nonostante le resistenze giustizialiste e la marea montante dell’intolleranza, che in effetti sconsiglierebbero d’indugiare su tali filoni di ricerca... - esso guarda ad una “giustizia senza spada”, ne studia i percorsi, ne sperimenta gli effetti, proprio nel tentativo di trovare una giustificazione sociale della pena che superi la dimensione della mera inflizione della sofferenza.

Ricordo ancora la trepidazione con cui, molti anni fa, Beniamino Calabrese (all’epoca Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Catanzaro ed oggi Avvocato Generale della Repubblica presso la nostra gloriosa Corte di Appello) ed io (giovane avvocato), avanzammo, per primi in Italia, richiesta congiunta di messa alla prova per un giovane accusato del delitto di omicidio.

Si trattava di un istituto a quell’epoca applicato, nel processo minorile, soltanto per reati minori ma, da giovani entusiasti viaggiatori nel mondo del diritto, ci convincemmo, dopo ampia discussione, che davvero questa era la “stella del mattino” di una idea nuova della giustizia penale.

Senza indulgere nelle auto magnificazioni pubbliche alle quali oramai in tanti ci hanno abituati, incensandosi quasi quotidianamente alla ricerca di una minima visibilità, devo riconoscere che avevamo visto bene.

Da allora il sistema, non soltanto quello minorile, è stato contagiato da questa idea di pena che guarisce il danno sociale provocato dal reato, anche il più grave; e fino ad oggi, che l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, è stato “importato” anche nel processo penale per gli adulti e, se così si può dire, comincia, sia pure con tante difficoltà, ad affermare una diversa visione della risposta penale.

Ecco, pur condividendo il ragionamento del dr. Musolino, per il quale vi sono istanze diverse da quelle giudiziarie sulle quali incombe l’onere di “creare le condizioni per investimenti strutturali che possano risollevare la Calabria dalla sua atavica povertà economica”, concausa evidente “della pervicace resistenza della ‘ndrangheta”, devo obiettare che il messianismo penale non soltanto deforma le finalità del diritto ma lo strumentalizza allo scopo di accrescere il peso sociale d’istanze populiste (intorno alla cui vacuità, com’è noto, prosperano carriere politiche e non solo...),soprattutto con l’obiettivo d’indurre l’opinione pubblica a credere che la repressione sia l’unico strumento efficace ed ogni altro volto del diritto penale sia inadeguato ed infruttuoso.

Ed invece, non da oggi la scienza penale si interroga su come sia possibile rinunziare alla ritorsione al male, pensare a soluzioni di politica criminale che superino le inveterate logiche della demagogia punitiva e si conformino, piuttosto, ai principi costituzionali. Anche il diritto penale, quindi, cerca di prendere le distanze dalla giustizia meramente retributiva, aprendosi - si veda la lezione di Eusebi - “ad una visione progettuale e motivazionale della prevenzione”.

Si tratta di dar corpo ad un modo di fare giustizia che sia l’esatto opposto rispetto al crimine al quale lo Stato deve reagire.

Sarebbe bello se su questo si aprisse un dibattito leale e franco, che auspico davvero riconoscente dei grandi sforzi che la scienza penalistica italiana ha compiuto in questo campo di ricerca.

Buon anno

 

*Avvocato.

Professore a contratto di Genesi e dinamiche dell’organizzazione criminale nel Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia dell’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro.