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Avrebbe iniziato il suo percorso nella criminalità organizzata a soli 15 anni compiendo estorsioni il testimone di giustizia Giuseppe Giampà, capo dell’omonimo clan, e ascoltato oggi in aula nell’ambito del controesame del processo Perseo a Lamezia Terme.
A rivolgergli le domande l’avvocato Francesco Pagliuso. Giampà ha raccontato di essere riuscito a conquistare il ruolo di capo all’interno della cosca per le sue capacità, dimostrate sin da giovanissimo, ma anche per il rancore accumulato nel tempo.
Il boss ha parlato poi degli omicidi decisi anche quando era già dietro le sbarre e fatti eseguire ai suoi affiliati e di come, quando era ancora in libertà, avesse fatto bruciare la macchina di un noto gioielliere lametino per punirlo del fatto che si fosse rifiutato di fargli pagare la merce con un congruo sconto.
Come sempre il pentito è stato un fiume in piena, raccontando con quasi non curanza, dei diversi progetti di omicidio a cui sarebbe sfuggito, di come fu lui stesso a decidere le sorti di altri uomini, a volte risparmiandoli.
L’uomo ha poi parlato di come nel carcere alcune notizie arrivassero prima e di come lui, allora, fosse a conoscenza dell’operazione Medusa prima che scoppiasse, conscio anche del fatto che gli sarebbero state rivolte delle accuse.
Soltanto pochi giorni fa le rivelazioni di Giampà hanno portato all’arresto di una guardia penitenziaria, risultata parente della moglie, per le accuse di associazione mafiosa e corruzione.
di Tiziana Bagnato