FOTO E VIDEO | Da Rinascita Scott a Crimine: le foto dell’incontro con don Micu Oppedisano. Il profilo di «zio Mimmo Camillò», il vecchio uomo d’onore sconosciuto alle cronache giudiziarie legato a doppio filo con i boss più potenti della Piana di Gioia Tauro e della Locride
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Rosarno, via Catullo, ore 17 e 9 minuti. È il 9 ottobre 2009. Qui c’è la tenuta di don Micu Oppedisano. Nove mesi dopo - quando sull’asse Reggio-Milano scatteranno le maxioperazioni Infinito e Crimine e le mentite spoglie dell’anonimo anziano della Piana verranno giù - si comprenderà che don Micu è un blasonato uomo d’onore, custode di tutte le regole della ‘ndrangheta calabrese. Semplificando, la stampa lo definirà «il capo dei capi»: asserzione impropria, perché c’è chi ha più potere ed influenza di lui, ma non del tutto erronea, perché se un gruppo di mafiosi vuole costituire un proprio locale ‘ndranghetista, è da lui che comunque deve passare.
In via Catullo, in quell’assolato pomeriggio d’autunno, ci sono tre uomini che bussano al cancello, ignari di avere un teleobiettivo puntato addosso. Il più giovane si chiama Domenico Antonio Chiarella, ha ventiquattro anni. Poi c’è Bartolomeo Arena, che ne ha 33. Il più canuto è Domenico Camillò, classe 1941. Lo chiamano “zio Mimmo Mangàno” e a Vibo Valentia viene considerato un pezzo grosso, uno della vecchia guardia che, proprio come Oppedisano, ha vissuto la sua carriera nell’onorata società mantenendo un basso profilo, immune da problemi giudiziari.
La scena, immortalata in una serie di fotogrammi, diventa materiale prezioso oggi, undici anni dopo. Perché serve a dimostrare la caratura di Bartolomeo Arena. Il 18 ottobre 2019, da uomo libero, prende contatti con i carabinieri e la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e sceglie di collaborare con la giustizia. È un contributo formidabile il suo, perché offre un affresco estremamente ampio, dettagliato e, soprattutto, aggiornato, delle dinamiche mafiose nella provincia di Vibo Valentia, rispetto alle conoscenze, già vaste e circostanziate, offerte da Raffaele Moscato, Andrea Mantella ed Emanuele Mancuso, che si fermano, rispettivamente, al 2015, al 2016 e al 2018.
Si autoaccusa, Arena. Spiega la sua carriera delinquenziale. Racconta di suo padre, Antonio, un boss emergente a tutto tondo caduto in una trappola ordita da vecchi e nuovi mammasantissima. Racconta della sua crescita da orfano e di una città, Vibo Valentia, nella quale in solitudine si fece strada tra i ranghi della malavita, all’ombra di Antonio Grillo, meglio noto come «Totò Mazzeo», descritto come il carismatico gangster di Piazza Municipio, considerato dentro e fuori la città. Racconta di quel che successe nel 2007, dopo l’operazione Nuova alba, quando fu disarticolato il clan Lo Bianco-Barba e lui, scalate gerarchie e doti, divenne uno dei promotori di una nuova ‘ndrina che assorbì il blasone criminale dei vecchi Ranisi, un tempo padroni di Vibo città. Ed è lui, Bartolomeo Arena, a dipingere il ritratto di Domenico Camillò, lo «zio Mimmo» il capo.
Sconosciuto alle cronache giudiziarie, capace di mantenere sempre un basso profilo a dispetto delle «elevatissime doti di ’ndrangheta». Di più, dice, Arena: «Si tratta del massimo esponente nella provincia di Vibo Valentia negli ultimi trent’anni ed attualmente nessuno nella stessa provincia ha una dote pari o superiore alla sua». Insomma, un capomafia vero, a dire di Bartolomeo Arena. «Conosciuto a Polsi e quindi da tutti i massimi esponenti della ’ndrangheta» ma anche «amico fraterno di Giuseppe Bellocco di Rosarno, sin dai tempi della latitanza di quest’ultimo». Pino Bellocco, uno dei boss più temuti dell’omonima ‘ndrina, arrestato il 16 luglio 2007 dal Ros e dallo Squadrone eliportato cacciatori, fu arrestato proprio in provincia di Vibo, in una masseria di Mileto: il suo covo era sotto una mangiatoia per le vacche. Ma «zio Mimmo», rivela Arena, aveva rapporti stretti anche con un altro Bellocco, Umberto, il patriarca conosciuto come Assu i mazzi, ovvero colui che tenne a battesimo anche la Sacra corona unita, e con don Micu Oppedisano.
Racconta dei viaggi nel Reggino, quando il suo gruppo decise di costituirsi in locale di ’ndrangheta. Racconta delle visite, nella Locride, agli Aquino e a Peppe Commisso detto il Mastro. Racconti suggestivi, sì. Ma Bartolomeo Arena è credibile? Sì, lo è per gli inquirenti. La patente di credibilità la conquista subito, quando consente ai carabinieri di recuperare un impressionante arsenale. Dice: «Sono lì». E lì i Cacciatori le trovano. Il sigillo, però, è nei fotogrammi acquisiti dal monitoraggio dell’abitazione di don Micu Oppedisano, il 9 ottobre del 2009. Era il segmento investigativo chiamato Patriarca e poi assorbito dall’operazione Crimine. Arena non millanta, Arena dice il vero su di sé e sul suo clan e proprio quelle immagini - scrivono i carabinieri del Nucleo investigativo di Vibo Valentia, nell’informativa finale acquisita agli atti di Rinascita Scott - «dimostrano non solo come l’odierno collaboratore fosse direttamente coinvolto in tali dinamiche di ’ndrangheta di così alto livello, ma soprattutto gli effettivi legami intercorrenti tra i citati Camillò Domenico ed Oppedisano Domenico». E ancora: «Tali risultanze costituiscono comunque un altissimo valore probatorio in ordine all’unitarietà della ’ndrangheta e quindi alla riconducibilità delle strutture di ’ndrangheta vibonesi al Crimine reggino, riscontrando pienamente le dichiarazioni del collaboratore Arena Bartolomeo».