La pandemia ha messo in luce una emergenza nella emergenza. Calabresi e africani in piazza, per ragioni diverse, nel contesto di un sistema Calabria che non ha offerto risposte nuove
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Nell'anno che mostra la recrudescenza su scala planetaria di un virus, era inevitabile che le fragilità della condizione del migrante finissero per ripercuotersi anche sul tessuto sociale e sulle strutture di una regione come la Calabria che è terra di sbarchi e di accoglienza. E se tutto sommato la prima ondata del covid, nei mesi duri del lockdown ferreo, ha lasciato esenti le zone dove alta è la densità di lavoro agricolo straniero, è stato sopratutto dopo l'estate che l'emergenza nella emergenza si è fatta sentire.
Quarantena contestata
Due zone rosse dichiarate dalla Regione, per prevenire possibili focolai nella tendopoli di San Ferdinando e nel campo container di Rosarno (una cinquantina di positivi in tutto), sono state le risposte sanitarie delle istituzioni in un contesto nel quale, però, nessuna azione ad hoc è stata varata sul fronte economico specifico a favore di lavoratori che, spesso in nero, hanno patito nei "ghetti" sia le restrizioni della libertà sia il rischio del contagio. Neanche da Roma sono arrivate risposte ritenute sufficienti dai sindacati, visto che la mini sanatoria varata dal governo - dicono le statistiche - non ha aiutato nè la regolarizzazione dei braccianti, e quindi la conquista di un contratto e dei relativi permessi di soggiorno, nèla loro uscita da un sistema abitativo che nella Piana di Gioia Tauro significa ancora tende, container e casolari di fortuna.
Calabresi in piazza
L'anno che passa, per, è anche l'anno della protesta di Amantea, figlia di una impreparazione del sistema Calabria che, a estate in corso, e mentre il dibattito era incentrato sulle forme di distanziamento da far osservare durante la movida, le prefetture calabresi si fanno carico di ricollocare nella cittadina turistica del tirreno cosentino, una parte dei migranti arrivati in Sicilia in quelle settimane. Erano ancora di là da venire le navi covid ingaggiate solo in un secondo momento dal Dipartimento nazionale dell'Emigrazione, e quindi nella cittadina guidata da un commissario prefettizio la tensione fu altissima con blocchi stradali eretti dai residenti che riuscirono a far trasferire i migranti che erano stati sistemati per la quarantena in una struttura già usata per l'accoglienza.
Le sassaiole
A parti invertite anche nella Piana reggina si arrivò allo scontro, con i migranti che - chiusi nella zona rossa della tendopoli - si produssero in un paio di sassaiole con 6 feriti tra gli agenti: protestarono rifiutando la quarantena sotto le tende ma, sopratutto, l'impossibilità di uscire dall'accampamento per quanti non fossero contagiati. L'anno che passa, quindi, è l'anno che non risolve e anzi acuisce l'impreparazione del sistema regionale dell'accoglienza che nella pandemia, anzi, e' stato spettatore silenzioso dell'ennesimo grido d'allarme del sindaco della tendapoli, Andrea Tripodi, arrivato nei primi giorni di agosto ad anninciare agli ospiti africani "uno sfratto dolce" che poi non c'è stato. Il primo cittadino, essendo in scadenza l'affidamento della gestione della struttura ad una associazione locale, e per tentare di accellerare il sempre promesso superamento della risposta abitativa incentrata sulle "tende di Stato", ha tentato inutilmente di unire l'emergenza sanitaria e l'emergenza abitativa - risolvere una e l'altra in nuove case da trovare gli sembrava la scelta migliore - visto che dall'alto gli e' arrivato l'ordine di fare una nuova gara, prolungare la vita della tendopoli assegnando ad un altro gruppo la sua gestione.
La pandemia non ha quindi sollecitato alcuna risposta alternativa e umana, nessuno scatto delle istituzioni quando il numero degli ospiti era basso e più facile poteva sembrare trovare per i braccianti una sistemazione diversa. Nulla di nulla, infatti oggi - a stagione agrumicola in corso e nel pieno della seconda ondata del covid - la tendopoli è tornata ad essere meta di lavoratori africani arrivati dal Nord Italia dopo aver perso l'impiego a causa del covid e, dicono gli operatori, il campo scoppia di presenze sebbene la struttura versi ancora in condizioni degradate.
Il dolore nella pandemia
L'anno che finisce è anche l'anno del dolore. Quello per i tre migranti morti a pochi km dalla meta, nel mare di Crotone, a bordo di un barcone che ha preso fuoco - sul finire di agosto - nel solito modo che capita quando la navigazione e' insicura, disperata, perche' cosi' anche quest'anno e' sembrata la rotta nel Mediterraneo. Il dolore per una nuova, solita, tragedia, ma anche per una tragedia annunciata come quella che ha strappato alla vita - proprio la settimana prima di Natale - Gora Gasama, un africano del Malì morto mentre in bicicletta, di sera, tornava nella tendopoli dopo una giornata nei campi. Vittima di un incidente stradale evitabilissimo, hanno detto i suoi amici che hanno fatto un lungo corteo di protesta, e hanno ribadito anche sindaci e sindacalisti, associazioni e volontari contestando la condizione di degrado della strada teatro dell'incidente: una arteria da anni al buio, pur passando frontale a poche decine di metri del porto dei record, nella zona industriale del consorzio regionale Corap.
Anche questa, come la pandemia, una occasione sprecata per migliorare le condizioni di vita di chi, già fragile, ha visto aumentato il proprio carico di sofferenza indotta da un sistema che non assicura ne' la luce lungo le strade e ne' la speranza di svuotare i ghetti.