Sono state le immagini "rubate" nella Corte d'Appello di Catanzaro a costare una condanna a due anni e otto mesi per corruzione in atti giudiziari all'ex presidente di sezione, Marco Petrini, e all'avvocato ed ex sindaco di Rende, Marcello Manna. È il video ad incastrarli entrambi, prova ritenuta dal Gup del Tribunale di Salerno «utilizzabile» e «genuina», così come le dichiarazioni rese dal magistrato.

Il video non è manipolato

«Certamente utilizzabili sono sia i video che gli audio delle intercettazioni nonostante la mancanza di alcune parti» scrive nelle motivazioni della sentenza emessa il 12 maggio scorso il gup, Carla De Filippo, «essendosi concluso da parte di tutti i consulenti o coloro che li hanno esaminati che le mancanze sono dovute ad assenza di segnali e non da manipolazione degli stessi, tali da determinarne la mancanza di genuinità» conclude e aggiunge «la condotta oggetto di contestazione è senz'altro da ritenersi provata nel suo nucleo essenziale, in quanto oggetto delle dichiarazioni di Petrini riscontrate da fonti esterne».

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Lo scambio di denaro

L'episodio "catturato" nelle immagini degli investigatori confermerebbe una presunta corruzione consumata negli uffici della Corte d’Appello di Catanzaro. Marcello Manna (difeso dall'avvocato Nicola Carattelli) avrebbe corrotto il magistrato per ottenere una sentenza favorevole al suo assistito, Francesco Patitucci, che in primo grado era stato condannato a 30 anni di carcere per il delitto di Luca Bruni ma poi assolto dalla Corte d'Assise d'Appello di Catanzaro. Sarebbe stato Marcello Manna nel maggio del 2019 a consegnare nelle mani di Marco Petrini (difeso dall'avvocato Francesco Calderaro)  la somma di 5mila euro in contanti quale corrispettivo dell'assoluzione. Il denaro contante sarebbe stato contenuto in una busta da lettera.

Il coinvolgimento di Manna

Secondo la ricostruzione poi accolta dal giudice, il magistrato nelle dichiarazioni rese immediatamente dopo il suo arresto nel gennaio del 2020 avrebbe inizialmente escluso il coinvolgimento di Marcello Manna nella corruzione ma solo «a fronte di una contestazione del pm che comunicava a Petrini che tra gli atti di indagine vi era una intercettazione audio video che lo riprendeva mentre riceveva dall'avvocato Manna e parlavano del processo Patitucci, prima di vedere il video ed avendo già precisato che in quella occasione Manna gli aveva consegnato sia il denaro che una sentenza, riferiva che la somma all'interno della busta e consegnatagli dall'avvocato Manna era effettivamente riferibile al processo Patitucci».

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Buchi irrilevanti

Per il giudice, «il racconto può ritenersi senz'altro genuino e comunque spontaneo; è stato Petrini a fornire i dettagli dell'episodio poi effettivamente confermati dalle immagini video riprese. Ciò consente anche di ritenere irrilevanti i "buchi" delle videoriprese avendo lo stesso Petrini, ancora prima di vedere il video, riempito anche le parti mancanti del suo racconto».

Aduso a ricevere denaro

E verosimili appaiono le giustificazioni addotte dal magistrato quando gli è stato «richiesto perché nelle prime dichiarazioni rese avesse negato il coinvolgimento dell'avvocato Manna nell'accordo corruttivo del processo a carico di Patitucci». L'ex presidente di sezione della Corte d'Appello avrebbe risposto «evidenziando che allorquando fu arrestato aveva in mente le sole due ultime dazioni di denaro». Verosimile perché Petrini «era aduso a ricevere somme di denaro per orientare le decisioni; gli accordi corruttivi, quindi, non erano per lui eventi eccezionali tali per cui i ricordi del fatto potessero fissarsi in modo indelebile nella memoria».

Confusione del ricordo

«La negazione del coinvolgimento di Manna non può essere intesa come una volontà di proteggerlo - annota il gup -, né sono ravvisabili intenti calunniatori o di volontà di condiscendenza nei confronti del pm» ma piuttosto «confusione del ricordo, anche causato dallo stato psicofisico nel quale si trovava nel primo interrogatorio».

Dichiarazioni genuine

Inoltre, anche le dichiarazioni di Petrini, avversate dalla difesa perché ritenute contradditorie, per il giudice «hanno una loro linearità, continuità e coerenza interna. Il racconto è apparso preciso e circostanziato rispetto ai tempi; la narrazione è coerente e proviene da un soggetto per cui non vi sono specifiche ragioni di dubitare della attendibilità tanto più che trattasi di dichiarazioni autoaccusatorie prima che eteroaccusatorie».

Un accordo corruttivo non è puntuale

Nessun intento calunniatore nei confronti di Manna per il giudice, che non accoglie nemmeno la tesi della difesa che propugna la genericità delle dichiarazioni di Petrini. «Un patto corruttivo certamente non è un contratto tra due parti tale per cui fin dal primo momento magari con formule sacramentali si stabilisce l'accordo in modo puntale e preciso; la genericità delle dichiarazioni del Petrini non è indice di inattendibilità della dichiarazione ma anzi rende le stesse ancora più genuine».

Incontri per consegnare denaro

«Appare sinceramente credibile - aggiunge nelle motivazioni della sentenza - che all'accordo si sia giunti in modo "implicito" e sfumato. Ovvio che non si prendessero espliciti appuntamenti per consegnare denaro ma che invece la consegna del prezzo della corruzione magari anche non quantificato con esattezza fin da principio avveniva in occasione di altri incontri».

Nessuna aggravante

Cade, invece, l'aggravante mafiosa. Per il gup «non vi è prova in atti che l'accordo raggiunto tra Petrini e Manna fosse finalizzato in modo diretto ad agevolare il clan di Patitucci o Patitucci stesso». Non vi è prova certa del dolo intenzionale: «Emerge con sufficiente certezza che Patitucci nulla sapesse di tale accordo». E benché alcuni «collaboratori di giustizia riferivano di sostegni elettorali all'avvocato Manna in campagne elettorali precedenti e le intercettazioni davano per altamente probabile la scarcerazione del boss trovano agevole spiegazione nell'andamento che aveva preso il processo».

Patitucci non sapeva

«Appare inverosimile ritenere che se Manna avesse quale fine quello di agevolare l'associazione per essere poi sostenuto nella campagna elettorale non avesse reso partecipe di tale accordo il reggente del clan che egli voleva favorire. Ciò quindi conferma che il vantaggio per il clan era una conseguenza indiretta dell'accordo e non il fine avuto di mira» conclude il gup che condanna entrambi a due anni e otto mesi di reclusione e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici.