Nando non c'è più ma il suo manifesto di morte, affisso a San Ferdinando e in tutti i paesi della zona, dà un appuntamento sbagliato. Per lui, mancato poche ore prima che anche i vescovi calabresi vietassero il tipo di esequie affollate a cui in Calabria siamo abituati, nessuna chiesa si è aperta per il raduno di preghiera e per l'offerta fisica delle condoglianze, costringendo anche chi non sapeva ad adeguarsi alle disposizioni, diramate successivamente, mentre la salma era ancora in casa.

Ai tempi del coronavirus, quel che consegue al trapasso non può essere più il rito comunitario – a cui specie nei piccoli paesi tutti sono abituati – ma, ugualmente, chi ha partecipato al dolore di questa perdita lo ha fatto con compostezza e, almeno nel caso del saluto al pensionato del piccolo centro del Reggino, con il giusto senso di responsabilità che si impone.

Nel divieto di fare una messa per Nando, per limitarsi a benedire in casa la bara - che le autorità religiose hanno introdotto proprio nel giorno di queste esequie, applicando i decreti delle autorità civili - c'è semmai un'amarezza in più che ha pervaso chi l'ha accompagnato nell'ultimo viaggio: la sua casa è proprio attaccata alla chiesa del paese. Pochi metri di un tragitto che nessun corteo ha potuto coprire, per lui che si svegliava con le campane che rimbombavano tra i muri della sua vita famigliare, per colpa di un'epidemia che tutti – tecnici e politici - possono affrontare con quell'alto grado di approssimazione a cui stiamo assistendo, sperimentando quegli errori e quei tentativi in serie, che invece la morte definitivamente imperfetta di Nando non ha potuto provare. Primo fra i calabresi che devono essere privati di quel tipo di cerimonia funebre che, da queste parti, sembra un trattato di sociologia, per i simboli comunitari che ancora incarna, dai fiori che spesso si sprecano, fino al “ricunsulo” per rifocillare i parenti che “tengono il lutto”.  

In Calabria si va via così senza accompagnamento, strette di mano e con una sobrietà obbligata, ai tempi del coronavirus che non significa morire più o meno male, ma vuol dire abbandonare la vita lasciando in chi rimane anche la paura di ritrovarsi – anziché nel cordoglio verso chi soffre - nel posto sbagliato, vicino alle persone sbagliate, a contatto con la gocciolina sbagliata. Altro beffardo paradosso, questo di essere ricordato per sempre anche per il battesimo del rischio di un contagio - di una quarantena che costringe quasi all'immobilismo - per chi come Nando aveva invece viaggiato libero tutta la vita, di paese in paese, per portare la bontà del suo animo e quella dei suoi gelati nei tanti locali di due provincie che riforniva.

La piazza di San Ferdinando, nel cui perimetro svetta anche il municipio – aperto per approntare quei controlli che ormai in Calabria si rendono vitali - per questi funerali con il tempio sacro negato, è sembrata la clessidra di questo tempo lento che ci separa dalla fine dell'emergenza. Ognuno vi è arrivato per contagiare di affetto una famiglia tra le più religiose e praticanti del paese, in qualche caso senza sapere delle condoglianze a turno che i parenti del defunto hanno dovuto offrire come personale tributo a quel senso di responsabilità che lo Stato chiede anche ai calabresi; gli astanti hanno potuto mostrare solo il corpo affranto, orfano della calca e quasi impaurito perché – come recita la formula dei lutti - “il presente vale come ringraziamento”, a maggior ragione verso  chi come Nando è morto, per primo, “nella Chiesa ma senza la chiesa”, per un pezzo di quel sacrificio che il mostro coronavirus sta imponendo a tutti.