«Putortì ha assunto comportamenti rivolti a inquinare il materiale probatorio». Con questa motivazione il tribunale del riesame ha rigettato la richiesta della difesa di Francesco Putortì, il macellaio48 enne accusato di aver ucciso due ladri entrati nella sua abitazione. Confermata, dunque, l’ordinanza impugnata dalla difesa dell’uomo.

Putortì resta dunque in carcere: il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria ha ritenuto sussistenti le esigenze cautelari e ha confermato l’arresto per l’uomo accusato di aver ucciso Alfio Stancampiano, di 30 anni originario di Catania, che il 28 maggio era entrato in casa del macellaio, in contrada Oliveto di Rosario Valanidi a Reggio Calabria, e di avere ferito Giovanni Bruno, di 46 anni anche lui catanese.

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Il primo, accoltellato, è stato abbandonato dai complici nei giardini dell’ospedale Morelli, dove poi è morto, mentre il secondo, dopo aver traghettato per la Sicilia, è stato costretto perché ferito a recarsi all’ospedale di Messina dove è stato ricoverato.

E le motivazioni sono chiare: «Ha inizialmente negato l'accoltellamento, limitandosi a prospettare di aver inferto un pugno a uno dei ladri scoperti nella stanza del figlio. Si è prodigato, immediatamente dopo il primo accesso dei Carabinieri, a lavare e disinfettare l'intero set di coltelli da cucina, da cui aveva tratto quello utilizzato per attingere i due catanesi».

Per i giudici la versione dei fatti offerta dal “macellaio” presenta tuttora «profili inconciliabili con gli esiti degli accertamenti medico-legali e con le indagini svolte dai Ris, primo fra tutti quello afferente alla colluttazione ripetutamente prospettata negli interrogatori innanzi al pm e al gip. Necessita approfondimento anche la questione concernente il rinvenimento delle due pistole con caricatori lungo le scale dell'abitazione, a dire del Putortì cadute ai due ladri nella concitazione della fuga: “Bruno ha negato di aver prelevato le armi, mentre lo stesso Putortì nella telefonata al 112 aveva segnalato la presenza di un'unica pistola "a terra" (ho soltanto visto che c'era una pistola a terra che non so se sia mia o sia caduta a loro, perché gli è caduto pure un cappello)”».

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Per i giudici del Riesame, «ove rimesso in libertà o collocato agli arresti domiciliari, l'indagato potrebbe porre in essere, eventualmente con l'ausilio di terzi, contegni d'impatto sul piano probatorio in una delicata fase investigativa, in cui sono intense le attività rivolte alla ricostruzione dell'accaduto».

L’uomo, inoltre, secondo i giudici, avrebbe mostrato «freddezza nella vicenda» e manifestato «una spiccata propensione alla violenza alla persona e all'uso delle armi».

Ma esiste una probabilità ben più preoccupante per i giudici. «Non si trascuri che l'indagato ha manifestato il fermo convincimento che i ladri catanesi abbiano agito sulla scorta delle indicazioni di un basista, che li aveva informati sulle abitudini degli occupanti della casa e sui vani in cui erano custoditi armi e valori».

«Secondo me – ha detto l’uomo agli inquirenti - non è una cosa casuale ma mirata, poiché sono andati a colpo sicuro a ricercare le armi; sono andati nella cassettina ove erano riposte le chiavi della cassaforte. senza rovistare nulla».

Proprio per questo i giudici hanno valutato che «se posto agli arresti domiciliari, anche con braccialetto elettronico, il prevenuto, atteso lo spiccato attivismo mostrato nella vicenda, potrebbe adoperarsi per individuare il presunto basista, ovvero assumere iniziative vendicative nei confronti di colui che ritenesse di individuare in tale ruolo».

Ed è anche la mancanza di un pentimento che ha lasciato ai giudici la decisione di rigettare la richiesta di scarcerazione. «Le stesse dichiarazioni rese nel corso del procedimento non denotano una presa d'atto del disvalore e delle conseguenze dell'azione criminosa, né alcuna rimeditazione critica, avendo in sede d'interrogatorio l'instante rivendicato con decisione l'ineluttabilità dell'azione offensiva».