Gratteri a Reggio: «La 'ndrangheta non crea lavoro ma corrompe sempre di più»

Il procuratore di Catanzaro Gratteri insieme a Nicaso per presentare l'ultimo libro si scaglia contro i colletti bianchi: «Si prostituiscono per poche migliaia di euro». Definisce Riina «un folle stupido» e svela il bluff di Oppedisano ritenuto capo della cupola

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di Consolato Minniti
13 dicembre 2019
08:24
Gratteri e Nicaso presentano il libro a Reggio Calabria
Gratteri e Nicaso presentano il libro a Reggio Calabria

«La ‘ndrangheta non crea occupazione. Perché se riesci a vendere meno, mentre l’obiettivo è riciclare i soldi della cocaina, giochi con un altro mazzo di carte. Ma poi arriva la Giustizia, sequestra e quell’azienda si deve reggere sulle sue gambe. Non riesce più». Nicola Gratteri non delude mai le attese. Giunto a Reggio Calabria per presentare il suo nuovo libro scritto con Antonio Nicaso, “La rete degli invisibili”, il procuratore capo di Catanzaro affronta diverse tematiche grazie alle domande ficcanti del giornalista Filippo Diano.  «Per 100 padri di famiglia che perdono il lavoro in un’azienda mafiosa, - ha proseguito - ce ne sono altrettanti, magari piccoli commercianti da generazioni, che chiudono e nessuno se ne accorge».

Come cambia la ‘ndrangheta

«Abbiamo sempre detto che le mafie si muovono con il mutare della società. Noi avanziamo e la ‘ndrangheta avanza. Diciamocelo: gli ‘ndranghetisti ci somigliano tantissimo. E se è vero che abbiamo visto questo fenomeno sempre come un monolite, oggi ci rendiamo conto che in un anno e mezzo quattro figli di capi mafia hanno chiesto di parlare con noi. Questo è un grande elemento di novità. Se me lo avessero detto 4 anni fa, avrei perso la scommessa».


Gratteri ammette di aver coinvolto esperti, consulenti, professori universitari e docenti di lungo corso, con l’obiettivo di cogliere «le pieghe più intime dello ‘ndranghetista». E qual è il risultato finale? «Oggi questi soggetti sono molto più fragili di un tempo. Una volta, quando ascoltavano la sentenza di condanna a 20 o 30 anni di reclusione, il loro volto era imperturbabile. Sembrava quasi riguardasse qualcun altro. C’era gente che stava anche 10 anni nei bunker sotto terra pur di non farsi cinque o sei anni di carcere. Perché? Perché l’imputato di mafia deve stare sempre sul suo territorio, non come il broker della droga». Ed è in questa fragilità, a giudizio di Gratteri, che bisogna entrare per aprire quel muro granitico e capire il profilo criminale di certi soggetti «cogliendone le debolezze». 

Il ruolo dei colletti bianchi 

Il procuratore capo di Catanzaro parte da un dato fondamentale: la ‘ndrangheta non è in grado, da sola, di fare riciclaggio sofisticato. «Loro sono in grado di comprare locali e gestirli. Ma le operazioni più complesse – aggiunge il magistrato – sono fatte attraverso funzionari di banca, finanzieri, avvocati. Abbiamo una fascia di persone che, anche se non espressamente “battezzate”, sono però funzionali all’associazione mafiosa. E qui andiamo oltre il concorso esterno, considerato che non si tratta di fatti episodici. C’è un rapporto sistematico, continuativo. Si tratta di gente che è in grado di consigliare e fare scelte strategiche, muovendosi con disinvoltura all’interno delle amministrazioni». Per Gratteri, «negli ultimi 20 anni c’è un precipitare della morale e dell’etica, dove gente insospettabile è pronta a prostituirsi per 5mila euro, per non rinunciare all’auto di lusso, ai vestiti firmati, alla settimana bianca o alla crociera. Gente pronta ad essere strumento funzionale alla ‘ndrangheta. Ecco perché ci sono meno omicidi. Perché è più facile corrompere. Il problema odierno, dunque, non è accumulare la ricchezza, ma giustificarla. 

Riina il pazzo e l’omicidio Fortugno

Per creare una linea netta di demarcazione fra Cosa nostra e ‘ndrangheta, Gratteri porta alcuni esempi. Le due mafie, infatti, hanno un modo diverso di rapportarsi con il potere. «Riina era un folle stupido – incalza il magistrato – perché se fosse stato intelligente avrebbe cercato accordi con gli uomini delle istituzioni. Lui ha pensato di poter dettare l’agenda. Solo una persona disturbata può pensare di vincere la guerra finale con 60 milioni di persone. Ma quella Cosa nostra non c’è più, mentre la ‘ndrangheta è sempre quella di un tempo, perché muta e tende sempre di più a somigliarci». Da qui al racconto del retroscena sull’omicidio Fortugno il passo è breve: «Perché Fortugno è stato ucciso a Locri? Lui era un cacciatore, usciva di casa alle 4 di mattina. Lo si sarebbe potuto uccidere in montagna, senza nessuno intorno. La risposta alla domanda la troviamo nel processo “Armonia”. Il locale di Locri era stato chiuso per indegnità. In quel momento non c’era giurisdizione ed era molto più facile ucciderlo lì, senza rendere conto a nessuno». 

Il bluff di Oppedisano

L’occasione è propizia per Gratteri per dire qualcosa che tanti sanno, ma che in pochi, fino ad oggi, hanno avuto il coraggio di mettere nero su bianco. Un’ammissione che rende grande merito al procuratore della Repubblica di Catanzaro, mentre in platea, ad ascoltarlo, c’è il suo omologo reggino, Giovanni Bombardieri. «Ogni avvenimento – rimarca Gratteri – si è in grado di decriptarlo se si conosce la storia. Altrimenti si rischia di dire sciocchezze, anche tra magistrati e forze dell’ordine. Così come avvenuto nell’operazione “Crimine”, quando abbiamo arrestato Mico Oppedisano e qualcuno ha detto di aver scoperto la cupola come Cosa nostra». Qui il magistrato si lascia scappare una battuta: «Vedevo le telecamere che si spostavano verso di me e pensavo: qui oggi facciamo una brutta figura».

Dal 1869 alla nuova generazione

E di storia della ‘ndrangheta se ne parla tanto al centro commerciale di “Porto Bolaro”. Lo fa il professor Antonio Nicaso, quando ricorda che l’unitarietà delle ‘ndrine non nasce con “Crimine”. «Già nel 1929, Antonio Musolino, fratello del bandito, decide di collaborare e ci spiega che ci sono tre aree: la Piana, la matrice e la montagna. Ciascuna è governata da tre persone e a capo c’è il gran criminale. Quel dato non l’abbiamo mai potuto provare processualmente. Nel 1969, c’è una nuova generazione, soprattutto a Reggio Calabria con la cosca De Stefano. Non parliamo di una dinastia nuova, perché dei De Stefano abbiamo traccia sin dal 1869, quando proprio loro contribuiscono a far vincere la destra cavouriana con Francesco De Stefano, parente della famiglia mafiosa odierna. I De Stefano allora si alleano con i Nirta e mettono in discussione la vecchia guardia. Il fallimento dell’esperienza del golpe borghese prima e dei moti di Reggio poi si fa sentire, ma consente ai De Stefano di aprire una stagione nuova. Già nel 1980, candidano Giorgio De Stefano alle comunali e viene eletto come secondo più votato. Altre famiglie entrano invece in consiglio regionale e capiscono che non possono più rimanere vicine alla destra eversiva. L’unico rapporto vero è con chi detiene il potere e gestisce il denaro. Ed è allora che avviene la vera risoluzione della ‘ndrangheta che rafforza il potere con la massoneria. Ciò consente di entrare nelle stanze che contano e gestire soldi pubblici. Succede, quindi, che la classe politica si piega alle logiche mafiose». Per Nicaso, «la ‘ndrangheta è stata legittimata anche dai nostri silenzi, dal fatto che abbiamo riverito i mafiosi e gli abbiamo pagato anche il caffè. Se vogliamo capire la storia della ‘ndrangheta di oggi, dobbiamo capire il periodo fra il 1969 ed il 1980». 

Il falso mito dell’occupazione

Ed è sempre il procuratore di Catanzaro a smontare un altro falso mito della ‘ndrangheta, ossia il fatto che crei occupazione. «Spesso le aziende mafiose hanno operai che devono restituire parte dei soldi che compaiono in busta paga, oppure sono inquadrati in nero. Così, quando dalle dichiarazioni dei pentiti emerge che quella società è costruita con i soldi della cocaina, arriva il Tribunale e sequestra. Ed inizia una lenta agonia, perché quando non arrivano più quei soldi, le banche, che prima davano grandi fisi, improvvisamente chiudono tutti i conti. Questa è la complicità, il “silenzio-assenso”. Ma come, proprio quando arriva lo Stato tu chiudi i conti? È l’ipocrisia di certa finanza». 

‘Ndrine e media

Gratteri, in conclusione del suo intervento, torna anche su uno degli argomenti più controversi: il rapporto fra ‘ndrangheta e comunicazione. «Siccome le mafie comprano tutto ciò che è in vendita, cosa accadrebbe se comprassero anche pezzi di giornali o di televisioni? O se comprassero qualche giornalista, per scrivere in un certo modo una notizia o l’impostazione. Oppure dire che bisogna riscrivere la storia, rivedere ciò che si è affermato o si sta affermando. È come un’operazione di maquillage per un muro che sta crollando. Non vorrei che questo vittimismo, questo continuo piangersi addosso, sia in realtà una foglia di fico per nascondere grandi responsabilità, per il fatto che il Sud e certe province in particolare, siano sempre agli ultimi posti in graduatoria». 

Giornalista
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