«Nicola Gratteri era severo e temuto. Conosce bene la ‘ndrangheta e in carcere tra i detenuti c’era il timore che, se fosse stato nominato Ministro della Giustizia, avrebbe introdotto leggi più ferree». È quanto ha dichiarato oggi in aula al tribunale di Locri il collaboratore di giustizia Antonio Cataldo, sentito nell’ambito del processo “Riscatto – Mille e una notte”, a proposito del piano per uccidere il figlio del magistrato antimafia, oggi procuratore capo della Dda di Catanzaro. A riferire a Cataldo dell’attentato fu Guido Brusaferri, in carcere durante l’ora d’aria, nel 2013. «Volevano simulare un incidente, una disgrazia – ha detto il pentito in aula, collegato in video conferenza da una località segreta – Seguivamo le vicende politiche e tutti in carcere parlavano di questa nomina».

I motivi del pentimento

Cataldo ha dunque spiegato quando e perché ha deciso di collaborare. «Ho deciso la prima volta nel 2012-2013 di iniziare un percorso collaborativo per un paio di mesi – ha raccontato - Poi non ho più reso dichiarazioni, perché avevo deciso di farmi i fatti miei e non collaborare più a causa di mia moglie che è venuta a sapere delle cose e aveva minacciato di abbandonarmi, cosa che poi fece nel 2017. Sono tornato a Locri nell’aprile 2021. Qui non ho più riallacciato contatti con la mia famiglia, perché non mi volevano a casa a causa della mia decisione di collaborare. Non ho chiesto soldi per sostenermi, mi ha aiutato mio fratello e un commerciante. Mi cercavano in parecchi, familiari e cosche avverse (Cordì e Floccari), e ho temuto per la mia incolumità a causa di alcune intercettazioni utilizzate nel processo “Mandamento”. Così sono andato dai carabinieri e ho deciso di collaborare».

I primi passi nella ‘ndrangheta di Locri

Rispondendo alle domande del pm Giovanni Calamita, Cataldo ha poi ripercorso i suoi primi passi nella ‘ndrangheta di Locri. «Sono stato battezzato nel 1984. Ricordo che il capolocale era Vincenzo Lombardo, capo società Pietro Bartolo, capo zona Natale Alì. Il battesimo avvenne in un terreno vicino all’ospedale di Locri. Avevo la dote di picciotto. Ogni mese si riuniva la società. Eravamo in tanti, parlavamo di problemi e di comportamenti da adottare. I nostri nemici erano i Cordì. Siamo stati impegnati in una faida contro di loro, con 15 morti dal 1997».

La pax mafiosa

«La pace tra i Cordì e i Cataldo? L’ho saputo da mia zia in un colloquio in carcere – ha proseguito il collaboratore in aula - Fu un errore fare la guerra. Quando veniva battezzato un Cataldo, i Cordì erano informati. Nonostante la pace, io comunque nutrivo del rancore verso di loro. Mio fratello Giuseppe voleva uccidere Brusaferri, perché lo riteneva responsabile dell’attentato a Domenico Cataldo».

Intanto il presidente del collegio Fulvio Accurso, all’esito della ricognizione fotografica compiuta dal collaboratore, visionando le fotografie inserite nei fascicoli fotografici sottoposti alla visione, si è accorto di conoscere due imputati di questo processo. Il primo svolgeva attività di cameriere presso il ristorante dove il presidente stesso si recava durante la pausa pranzo e di cui possedeva anche il numero di telefono con cui comunicava l’arrivo con i colleghi. La seconda conosciuta come addetta alle pulizie del tribunale con cui da anni vi sono rapporti di cordialità in quanto la stessa svolge prestazioni lavorative presso il palazzo di giustizia. Il presidente ha precisato di «non aver mai avuto rapporti di frequentazione con queste persone» e di astenersi limitatamente a queste due posizioni per mera ragione di opportunità. Accurso ha dunque disposto la trasmissione degli atti al presidente della corte di Reggio Calabria sollecitando una decisione tempestiva, essendo stata già stata calendarizzata la discussione del processo.