Sentito come testimone assistito, il collaboratore di giustizia Gaetano Albanese nel corso del maxi processo Rinascita Scott boicotta le domande del pm. Rischia di essere incriminato per falsa testimonianza (ASCOLTA L'AUDIO)
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Il pentito… pentito. Gaetano Albanese: specialista della lupara bianca, il carnefice – tra gli altri – di Pino Russo, vittima innocente della ‘ndrangheta. L’ultima udienza del maxiprocesso Rinascita Scott, terminata l’escussione di Gaspare Spatuzza, riparte - non senza perplessità - con il pentito di Candidoni, già protagonista di alcune delle pagine più cruente della faida che negli anni ’90 insanguinò il territorio di Laureana di Borrello. Aveva già deposto in un processo contro i clan del Vibonese e, in particolare, contro i Mancuso di Limbadi: Genesi, poi concluso con una pioggia di assoluzioni per “ne bis in idem”; correva il 20 maggio del 2010. Ritrattò tutto, allora, salvo poi spiegare le ragioni di quel clamoroso dietrofront durante il processo ’Ndrangheta stragista.
I precedenti
«Sto in carcere da tre anni e mezzo - disse tre anni fa a Reggio Calabria -. Mi hanno trovato delle armi in casa. Ma io voglio dire la verità: le ho comprate perché sono stato minacciato. Quando ero sotto protezione, qualcuno mi ha trovato ed è venuto a dirmi cosa avrei dovuto dire al processo (Genesi, ndr). Ecco perché ho dovuto dire che le cose affermate in precedenza non erano vere. L’ho fatto presente a chi di dovere, ma non gliene è fregato nulla». «Invece era vero?», replicò il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo. Ed Albanese: «Era vero, sì. Oggi lo posso confermare perché sto in carcere e non ho problemi che mi si possa trovare».
La reticenza del teste
Albanese, oggi, esordisce clamorosamente: «Non intendo rispondere a nessuna domanda». Ma il suo status di testimone assistito gli impone di replicare al pm antimafia Andrea Buzzelli. Fa ostruzionismo Albanese: «Non mi ricordo niente… Gli omicidi sono stati tanti». Ci sono le sentenze a suo carico, in particolare quella nel processo Tirreno: condanne definitive per gli omicidi commessi per conto dei giganti della ’ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. C’è stasi in aula: il suo difensore, l’avvocato Enrico Tucci, chiede un rinvio dell’esame; le difese si oppongono. Rischia la contestazione di falsa testimonianza. Ci riprova il pm ed il pentito-testimone: «Ho commesso degli omicidi, ho fatto trent’anni e li ho pagati. Tra otto mesi ho finito. Ma erano fatti miei, sono stato io a farli. Ho avuto guerra con delle persone e ci siamo sparati tra di noi. Ho ucciso Antonio D’Agostino, poi ne ho fatti altri ma non mi ricordo. Ho cercato di dimenticare».
I troppi non ricordo
«Conosce Ventre Francesco?», chiede il pm. E Albanese: «Non so.. Boh». È invece il primo delitto che confessò e che lo introdusse nell’onorata società: «Ho fatto più di un omicidio, ora non so chi è… Ventre... Rao… Conoscevo Rocco Molè, ho conosciuto qualcuno dei Piromalli, che avevano un distributore di benzina. Andavo a fare benzina. Non mi ricordo di Girolamo Molé. Persone di Gioia Tauro, ne ho conosciute tante…». E ancora: «Mio fratello Antonio sta pagando più di quello che doveva pagare… Forse prima lo sapevo cos’era un rito di affiliazione, ora non ricordo più niente di tutto questo». Il teste, quindi, non risponde. La difesa incalza. L’avvocato Sabatino contesta la reticenza di Albanese e chiede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese. Il Tribunale dispone si vada avanti e redarguisce il collaboratore di giustizia, ma l’ex killer della Piana non demorde: «Per me i Molè sono delle bravissime persone che abitano a Gioia Tauro». Il pm a questo punto rinuncia. Il collegio interrompe l’esame.