«Conobbi sia l’onorevole Matacena che l’avvocato Paolo Romeo. Il primo venne in rappresentanza dei Piromalli, il secondo per questioni politiche e per un appalto all’ospedale di Cosenza». È quanto afferma il pentito di ‘ndrangheta cosentina, Franco Pino al processo ‘Ndrangheta stragista in corso al Tribunale di Reggio Calabria. Un’udienza che, ancora una volta, si incrocia a doppia mandata ad alti procedimenti in corso nella città dello Stretto. Le parole del pentito, in effetti, riportano a “Breakfast” e “Gotha”, dove, nel primo caso, si discute della latitanza di Amedeo Matacena e della rete di potere che ne ha permesso la permanenza a Dubai, e nel secondo di quella componente riservata della ‘ndrangheta di cui Paolo Romeo è ritenuto vertice assoluto assieme all’avvocato Giorgio De Stefano. E le parole di Pino, una volta di più, dimostrano come tanto Matacena quanto Romeo si interessassero di questioni che s’intersecano con fatti di ‘ndrangheta.

La dote riservata delle ‘ndrine

Franco Pino è appartenente alla criminalità organizzata calabrese sin dal 1976. È lui stesso a raccontare di aver conosciuto Nino Gangemi, pezzo da novanta del gruppo Piromalli, nel carcere di Cosenza. Fu lui ad inserirlo all’interno della ‘ndrangheta maggiore, quella reggina. Pino narra di quando fece il salto di qualità diventando prima santista, poi vangelo, poi trequartino e successivamente “diritto e medaglione”. «Si diceva che in Calabria c’erano 100 persone con questo merito», spiega il pentito che aggiunge: «All’epoca c’era un pentito, Pino Scriva, e questi aveva svelato tutto fino al grado di trequartino e avevano inventato questo nuovo titolo che non era a conoscenza di nessuno. Era una dote riservata, in sostanza si chiamava merito. Riservata perché il discorso che l’avevano in un numero limitato. I ranghi inferiori all’epoca non lo conoscevano».

L’appalto in Romania e l’incontro con Matacena

Alla domanda se abbia mai conosciuto personaggi politici, tramite Gangemi, Pino risponde con assoluta sicurezza: «Con Gangemi ci fu un discorso specifico legato ad un appalto fatto in Romania. Un’autostrada che stava costruendo la ditta ItalStrade. Questo lavoro lo aveva fatto appaltare una persona a me vicina, l’ingegnere Coscarella. E queste ditte avevano preso l’impegno di pagare 1 miliardo e 300 milioni all’ingegnere per avergli fatto avere il lavoro. Non lo hanno pagato e lui mi ha chiamato. Contestualmente è intervenuto Gangemi e mi ha detto di lasciare stare l’ingegnere e di mettermi vicino a loro. Io gli dissi che quella era una persona vicina a me. Allora lui mi rispose: “Aspetta domani ti mando una persona che ti verrà a chiarire la questione”». Ma chi è che si presenta per conto di Gangemi, il giorno successivo? Proprio Amedeo Matacena. «Venne lui e c’era pure l’onorevole Accroglianò. Questi era colui che aveva preso impegni per pagare i soldi all’ingegnere». Il racconto di Pino si fa più vivo: «Viene Matacena e mi dice di lasciare stare questo ingegnere. Io gli rispondo che lo dovevano pagare e lui mi dice che c’era anche l’accordo per uccidere l’ingegnere. Io replico che l’ingegnere non si tocca». Pino narra pure della circostanza secondo cui le cosche dello jonio cosentino avevano già dato l’ok, però senza di lui non se ne sarebbe fatto nulla. «Carelli – spiega Pino – gli rispose che se non sono d’accordo io, l’ingegnere non si tocca». Il procuratore aggiunto Lombardo allora incalza Pino con le sue domande, chiedendo se Matacena fosse andato a riportare la richiesta di uccidere l’ingegnere. «Matacena non mi disse proprio questo, però per come abbiamo ragionato io ho capito subito. Gangemi, Carelli e altri erano già d’accordo. Quando sono venuti da me mi hanno portato un discorso già preparato, portato dall’onorevole Matacena. Io a lui dissi solo una cosa e capii che bluffava: diamo i soldi all’ingegnere e lo faccio tirare fuori. Lui disse “no”. E allora gli risposi “cosa volete?”. Alla fine si tirarono indietro. Loro avevano già architettato tutto.

Paolo Romeo e l’appalto di Montesano

Ma non c’è solo Matacena fra i soggetti con cui Pino ha avuto rapporti. Nell’elenco figura anche Paolo Romeo, l’ex parlamentare oggi in cella con l’accusa di essere al vertice della cupola massonico-mafiosa reggina. «Ho avuto direttamente rapporti con lui una volta in maniera specifica – ricorda Pino – ma in diverse situazioni tramite altri. Lo conobbi direttamente nel corso della campagna elettorale del ’92-’94 e lui si era candidato con il Psdi. Me l’aveva presentato l’onorevole Tursi Prato che era vicino a me ed era di Cosenza. Ero intervenuto per fare andare avanti Tursi Prato per queste elezioni a livello locale. Era candidato anche lui e mi è stato presentato, l’ho conosciuto». Fin qui la conoscenza diretta. Ma ci sono anche altri episodi in cui figura Romeo, seppur non direttamente. «Ricordo di una ditta di Reggio, Montesano, che aveva appalto all’ospedale di Cosenza, che glie era stato fatto ottenere da Tursi Prato. Questa ditta non mantenne gli impegni». «Una tangente?», chiede il pm. E il pentito risponde: «Sì, una tangente. Tursi Prato aveva fatto appaltare il settore ristorazione dell’ospedale civile di Cosenza e loro avevano promesso una percentuale. In più mi avevano promesso la possibilità di gestire dieci posti di lavoro. Non diedero i soldi a Tursi Prato e Montesano diceva che era colpa dello stesso Tursi Prato. Per tale vicenda mi sono arrivati circa 400 milioni». Pino aggiunge alcuni particolari: «Sono intervenuti da Reggio Calabria il nipote di Tegano, un certo Giorgio Benestare. Quando siamo andati a questa disputa, è intervenuto questo signore e mi ha dato appuntamento in un appartamento di Cosenza di un’altra persona di Reggio che aveva un negozio di scarpe. Abbiamo avuto un altro incontro personalmente con Montesano e Tursi Prato». Il procuratore aggiunto Lombardo, allora, approfondisce i rapporti fra Montesano e i Tegano: «I Tegano personalmente non li conosco. Parlo – rimarca Pino – per l’appuntamento specifico e questo parlava a nome di Montesano. Sì ho percepito che avesse rapporti con i De Stefano-Tegano. Lui non è che parlava per lui, ma parlava a nome di queste persone. I promotori dell’appuntamento erano personaggi di Reggio Calabria che proteggevano Montestano e allora per evitare problemi a lui, ci fu questo intervento».

Il vertice nello studio Caruso

Pino ricorda anche un altro episodio, questa volta di natura squisitamente politica. «Nello studio dell’avvocato Caruso ricordo che c’erano Paolo Romeo, l’onorevole Gentile, Tursi Prato, l’avvocato Caruso. Io in quel momento ero a garanzia di Tursi Prato, perché c’era uno dei fratelli Gentile che doveva entrare nel partito social democratico. E si pensava che entrando lui si sarebbero fatte le scarpe a Tursi Prato. Quindi l’incontro era finalizzato a dire” lui qui è e qui resta”». Ma qual era il ruolo di Romeo in tutto ciò? «Romeo era la persona al di sopra di Tursi Prato. Era la persona che lo portava. Romeo, non so come definirlo, era quello che ha aiutato Tursi Prato nelle campagne elettorali. Portava affari, come l’appalto all’ospedale. Romeo, la sera prima aveva fatto una festa all’Acropolis, mi ringraziò che era tutto andato bene, anche se io non c’entravo niente. Poi abbiamo parlato di Tursi Prato, del futuro del partito e mi disse che se avevo bisogno lui era a disposizione su Reggio Calabria».

Romeo nella ‘ndrangheta?

Anche in questo caso il pm chiede maggiori dettagli: «Bisogno di cosa? Qualsiasi bisogno. Una volta, quando avevi a che fare con personaggi grossi, era una cosa ricorrente che ti dicevano siamo a disposizione. Si mise a disposizione di Franco Pino che sapeva essere soggetto di ‘ndrangheta. Benestare quando io gli ho elencato come è stato ottenuto l’appalto, come si è creato, lui mi confermava che era al corrente di tutto ed era a Cosenza per chiarire e si parlava di Romeo». Insomma, per il pentito non c’era bisogno che si sottolineasse l’appartenenza di Romeo alla ‘ndrangheta: «Non c’era bisogno che lo dicessero, però lo trattavamo come se fosse un’unica organizzazione. Non c’era bisogno di dirlo, perché se Romeo viene a Cosenza a dirmi che è a disposizione su Reggio Calabria… Reggio era quello che era. Poi noi stavamo trattando questioni criminali, estorsioni, appalti». Ancora il pm: «Qualcuno le disse a quali famiglie di ‘ndrangheta facessero riferimento Matacena e Romeo?». Pino chiarisce: «Per quanto riguarda Matacena, non penso che appartenesse… penso che fosse un elemento che aveva contatti con tutti, anche se vado ad intuito. Rome aveva rapporti sia con uno schieramento che con l’altro».

Il summit al villaggio Sayonara

Il racconto di Pino si sposta poi nel periodo delle stragi di mafia, entrando ancor più forte nel tema del processo. «Dopo la strage di via D’Amelio, vengo convocato dai Mancuso. Era estate inoltrata nel 1992. Venne a Cosenza Pantaleone Mancuso e mi disse che mi voleva parlare Luigi a Limbadi. A brevissimo termine, chiamai una persona vicina a me, Umile Arturi. Partiamo da Cosenza e andiamo a Limbadi. Troviamo il nipote di Luigi e ci dice di andare tutti al campeggio Sayonara. Era un villaggio turistico, c’era Luigi Mancuso, Santo Carelli, Giuseppe Farao, c’erano altre persone come Nino Pesce, c’era anche un calabrese che abitava a Milano e mi fu presentato un certo Franco Coco Trovato e c’era anche Giuseppe De Stefano. C’era un signore che mi è stato presentato, tale Papalia. Era Luigi Mancuso che faceva le presentazioni». Ma perché erano stati convocati al Sayonara? «Arrivò un’imbasciata che i siciliani di Totò Riina e quelli vicini a lui, avevano chiesto ai calabresi – spiega Pino – di partecipare con loro ad un’offensiva contro lo Stato. Volevano compiere attentati contro obiettivi istituzionali e avevano detto alla ‘ndrangheta “vi conviene partecipare perché, anche se voi non partecipate e la legislazione cambia, le cose si fanno più brutte per tutti, non solo per i siciliani”. Ci fu una proposta e ciascuno la pensò a modo suo. Non c’era nessun siciliano presente, materialmente parlavano Nino Pesce e Coco Trovato. Pesce era messaggero dei Piromalli, ha introdotto il discorso dicendo che parlava a nome dei Piromalli». Cosa si intendesse per obiettivi istituzionali è presto detto: «Specificatamente si parlava di assaltare caserme nei paesi dove c’erano cinque o sei carabinieri, piccole stazioni. Colpire questi obiettivi nei paesi. Unico riferimento erano le stazioni carabinieri. Anche per uccidere. Se affronti un carabiniere sai già che se non uccidi tu, lui prende la pistola e uccide te. Il riferimento lo fecero sia Nino Pesce che Coco Trovato, la direttiva era quella, una proposta». Anche sugli obiettivi, Pino è lucidissimo: «Per quello che ho capito io, sovvertire lo Stato e mettere con le spalle al muro, costringere lo Stato ad una trattativa e dire “noi non facciamo più questo e tu in cambio mi dai legislazione più morbida, il 41 bis, legge sui pentiti”». Pino, però, non era d’accordo con quella strategia: «Ho avuto modo di commentare con Luigi Mancuso, lui non ha mai condiviso la guerra aperta contro le istituzioni, i carabinieri, lo Stato.

Le perplessità della 'ndrangheta

Era una proposta dove ciascuno avrebbe dovuto poi decidere. Non era in quella sede il direttorio di tutto. Noi abbiamo ragionato grosso modo quello che si doveva ragionare in quella sede, ma non si stabiliva tutto là. Volevano tirarci dentro noi cosentini e cirotani, ma non avevano bisogno di noi. Quella è gente che decide da una vita, non aveva bisogno di invitare cosentini, coriglianesi e cirotani. Io non diedi adesione alla richiesta dei siciliani. Se la Calabria ‘ndranghetista avesse aderito apertamente ci saremmo dovuti stare anche noi. Se Luigi Mancuso mi avesse detto “Piromalli e Pesce aderiscono”, io avrei aderito anche a malincuore. Anche Mancuso lo vedeva come un problema schierarsi apertamente».

 

Consolato Minniti