VIDEO | La toccante testimonianza della volontaria di Roberta Zehender nel 40esimo anniversario della scoperta dei primi casi di sindrome immunodeficienza acquisita
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«Li ricordiamo tutti. Ricordiamo tutti i volti e gli occhi di questi ragazzi e di queste ragazze che poi lentamente abbiamo visto morire. Tanti non sono sopravvissuti, purtroppo», racconta Roberta Zehender, volontaria da oltre trent’anni nel reparto di malattie infettive del Gom di Reggio Calabria, nelle fila dell’associazione di volontariato ospedaliero Avo che oggi presiede.
Il Covid e i rischi dei ritardi nella diagnosi
Il suo servizio iniziava proprio mentre di Aids si moriva e basta perché ancora poco si sapeva di questa sindrome da immunodeficienza acquisita causata dal virus dell’Hiv, isolato e identificato da Robert Gallo nel 1982. La giornata mondiale contro l’Aids (1 dicembre) non solo segna i 40 anni dai primi casi segnalati nel 1981 dal Centers for Disease Control and Prevention, ma è anche occasione per denunciare che occorre non sottovalutare i rischi derivanti dai ritardi, a causa della pandemia da Covid in atto, nelle diagnosi e dalla conseguente vanificazione dell’attività di prevenzione che, unitamente alla ricerca e alle terapie antiretrovirali, nel corso degli ultimi decenni ha permesso alle persone malate e infette di continuare a vivere.
Bisogna, infatti, continuare a fare ricerca e soprattutto a prevenire, senza dimenticare la violenza con cui questa piaga ha falcidiato la vita di 35 milioni di persone nel mondo, di cui 45mila in Italia. Una delle pandemie più letali della storia.
La testimonianza: «La malattia, lo stigma e la solitudine»
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta anche il reparto di malattie infettive del Grande ospedale metropolitana di Reggio Calabria, oggi unità operativa complessa e ancora unico presidio infettivologico del territorio metropolitano, ha assistito alla ferocia di questa pandemia.
Una fine implacabile che ha colpito persone, di età compresa soprattutto tra i trenta e in quarant’anni, contagiati dallo scambio di siringhe nel circuito mortale della droga, da rapporti sessuali occasionali e da trasfusioni, di cui anche l’Associazione volontariato ospedaliero Avo, è stata testimone a Reggio Calabria.
«L’Avo entrava nel reparto di Malattie infettive agli albori della sua attività associativa presso il nosocomio reggino. All'epoca l'aids non era solo una piaga sanitaria ma anche un doloroso stigma sociale. La letalità era altissima perché ancora la conoscenza dei rischi derivanti da determinati comportamenti era lontana dall'essere una piena consapevolezza. La nostra legittima paura fu superata grazie alla formazione che facemmo prima di avviare il nostro servizio in reparto e che il nostro presidente di allora, il dottore Pino Messina, ci suggerì.
Quelle informazioni, unite al clima di grande collaborazione con medici e infermieri del reparto e al nostro compito di stare accanto e ascoltare, ci consentirono di esserci per tanti uomini e tante donne che spesso venivano abbandonati dalla famiglia e vivevano il loro dramma in solitudine», ricorda la volontaria e presidente dell'Avo, Roberta Zehender.
Tempo della malattia condiviso
Non solo dolore e malattie, che inarrestabilmente consumavano e conducevano alla morte per il grave attacco al sistema immunitario arrecato dal virus, ma anche sofferenza nell’anima e solitudine che la presenza dei volontari alleviava. I ricordi sono tanti e ancora vividi.
«Mai dimenticherò la luce sul viso di un uomo che, vicino alla sua morte, aveva espresso il desiderio di mangiare un piatto di spaghetti al pomodoro con parmigiano a parte. Era il giorno prima della vigilia di Natale - racconta Roberta Zehender – ed io sapevo che forse non sarei riuscita a soddisfare quel desiderio. Così dissi di non essere certa. La mattina dopo, tuttavia, mi alzai con il pensiero e portai quel piatto di pasta.
Quando arrivai in reparto, subito mi venne detto che il signore, che prima di me forse sapeva che sarei riuscita ad accontentarlo, non aveva mangiato per aspettarmi. Non potrò mai dimenticare quel sorriso quando mi vide. Dopo qualche giorno se ne andò, come spesso accadeva. Lo stesso destino toccò anche ad un giovane del Burkina Faso che un pomeriggio mi mostrò un libro con molte foto del suo paese.
Mi raccontò tanto della sua patria e della sua famiglia. Un giorno mi chiese di portargli della schiuma da barba e del dentifricio. Avrebbe voluto darmi del denaro che io non accettavo mai. In quell’occasione, però, lui volle darmi una banconota del Burkina Faso che ancora conservo gelosamente.
Ce ne sarebbero tanti altri di aneddoti che serbo nel cuore, come quella festa di compleanno in reparto che organizzammo con la famiglia, una delle poche storie di cui anche le famiglie fanno parte, o quella riappacificazione con la mamma, giunta poco prima della fine verso la fine», ricorda ancora la volontaria Avo Roberta Zehender
Un dramma silenzioso e legami profondi
«Come volontarie e volontari non stava e non sta a noi giudicare. Noi siamo stati accanto a loro per oltre trent’anni e torneremo quando il Covid lo consentirà, a stare accanto a loro per ascoltarli. Oggi la malattia non ha più l’impatto terribile di un tempo. La ricerca ha prodotto dei risultati importanti. La maggior parte di loro oggi non si spegne in corsia ma riesce ad uscire e a curarsi.
Mi è capitato di incontrarne molti fuori e ciò mi ha riempito di gioia. Perché ogni volta perdere quelle persone con le quali costruivamo delle relazioni, che sentivamo come fratelli e sorelle più piccoli, era davvero una grande sofferenza. In quel dramma allora silenzioso, noi tessevamo legami molto profondi», ha concluso Roberta Zehender, volontaria e presidente dell’Avo di Reggio Calabria..
I dati: in Calabria lo scorso anno nessun caso
Secondo il ministero della Salute, nel 2020 in Italia, sono state effettuate 1.303 nuove diagnosi di infezione da Hiv, con un'incidenza (casi/popolazione) inferiore rispetto alla media osservata tra le nazioni dell’Unione Europea e con la quasi totalità dei contagi avvenuti tramite rapporti sessuali.
Il Notiziario dell’Istituto Superiore della Sanità, aggiornato al 31 dicembre 2020, rivela che in Calabria, come anche in Basilicata, nel 2020 nessuna diagnosi di Hiv è stata rilevata, a fronte delle sette dell’anno precedente. Lo stesso report rivela anche che in Calabria, dall’inizio dell’epidemia, sono stati segnalati 266 casi a Catanzaro, 96 a Reggio Calabria, 76 a Cosenza, 75 a Crotone, e 49 a Vibo Valentia.
Pur lasciando invariato l’ordine delle province, il dato varia se ci riferiamo alla residenza delle persone che hanno contratto il virus, evidentemente diagnosticato fuori dalla Calabria: 204 casi a Catanzaro, 165 a Reggio Calabria, 154 a Cosenza, 128 a Crotone, e 60 a Vibo Valentia.
Va da sé che i dati di questi ultimi due anni risentono dell’impatto della pandemia da Covid 19 e non solo in termini d lockdown e restrizioni, con riduzione di occasioni di aggregazione e relazioni. L’impatto ha avuto una dimensione negativa in termini di diminuzione delle diagnosi, rimaste bloccate. Dunque il dato potrebbe plausibilmente essere stato condizionato, con la conseguenza di contagi e aggravamenti rimasti sommersi.