Rinascita Scott

«Giamborino politico contro la ’ndrangheta? Solo una messinscena, è un uomo del clan»: la Dda prova a smontare la sentenza

La Procura distrettuale: «L’ex consigliere regionale votato dal locale di Piscopio». Nel mirino anche l’ex sindaco di Pizzo Callipo, assolto in primo grado: «Ha chiesto e voluto il consenso elettorale della ’ndrina». Gli incroci con il boss Razionale

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di Pablo Petrasso
18 luglio 2024
10:03
Pietro Giamborino
Pietro Giamborino

L’assoluzione di Pietro Giamborino dal reato di associazione mafiosa (per l’ex consigliere regionale è arrivata una condanna a un anno e 6 mesi per un reato minore) nel primo grado del processo Rinascita Scott sarebbe basata su una motivazione «insufficiente e contraddittoria». La Dda di Catanzaro mette nero su bianco nell’appello le ragioni per le quali chiede di rivedere quella pronuncia. E ripercorre un viaggio che inizia in un tempo antico, quando Giamborino non era ancora un politico arrivato agli scranni del Consiglio regionale, e si spinge fino agli anni dei successi elettorali maturati a Piscopio, dove sarebbe nata – secondo l’accusa – la presunta affiliazione al clan

Già i giudici di primo grado evidenziano, in effetti, «l’esistenza di una vecchia locale di Piscopio negli anni 60-70, legata alla cosca di San Gregorio d’Ippona, di cui facevano parte diversi soggetti intimamente legati a Pietro Giamborino». E sottolineano i rapporti tra Giamborino e Saverio Razionale. Rapporti che emergerebbero, però, da un colloquio tra lo stesso Razionale e Giovanni Giamborino, uomo vicino al clan Mancuso, che «non è stato rinvenuto dal Collegio» nel materiale depositato. Quella conversazione, nella quale vengono commentati i risultati delle elezioni amministrative del maggio 2002 a Vibo, «in assenza di perizia e di file audio non può essere utilizzata dal Collegio». Sono sempre le motivazioni a illustrare l’«apprensione del politico» per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e l’interessamento del politico per un appalto: fatto rispetto al quale i giudici parlano di «equivocità quanto al ruolo di Giamborino». Tuttavia, nei confronti dell’ex consigliere regionale non viene raggiunta «la soglia probatoria necessaria ai fini di una condanna in relazione al delitto di partecipazione in associazione mafiosa o di concorso esterno».


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«Giamborino – chiosano i giudici – fa parte verosilmente di quella “zona grigia” in cui i clan strizzano l’occhio alla politica e ne pretendono i favori dopo averla assecondata». I contorni del presunto patto stretto con il clan, tuttavia, «si intuiscono ma non si riescono a ricostruire con la dovuta precisione». Inoltre, «se certamente è emerso dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e da alcune captazioni che Giamborino facesse parte del vecchio locale di Piscopio, ormai estinto e dal quale comunque prendeva le distanze negli anni 90 (quando iniziava la sua carriera politica) non può dirsi altrettanto per l’adesione dell’imputato al nuovo locale fondato nel 2009, sul quale si concentra il capo d’imputazione». 

Il politico antindrangheta «è una messinscena»

È questo il cuore delle motivazioni che la Dda decide di impugnare quando rileva che «il Tribunale non ha correttamente inquadrato l’imputazione di cui risponde Giamborino operando una distinzione fra il vecchio locale di Piscopio e quello “nuovo” aperto da Franco D’Onofrio nel 2009, come se l’apertura o la chiusura di un locale di ’ndrangheta abbia effetti dirimenti sulla partecipazione o meno al sodalizio». Un cortocircuito, secondo i pm, che «lascerebbe lo spazio o il potere a una organizzazione criminale che dichiarando aperto o chiuso un locale possa o no essere perseguita dal punto di vista giudiziario». Per la Procura distrettuale, dunque, «non è stata comprese la portata della contestazione».

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L’accusa non ritiene neppure che vi sia stato un allontanamento del politico dagli ambienti criminali all’inizio della propria carriera politica: «le convergenze intercettive e il dichiarato dei collaboratori di giustizia non vanno in quella direzione, anzi».

I magistrati antimafia parlano, in questo caso, di «una apparente presa di distanza dalla ’ndrangheta funzionale a non interferire con l’attività politica», cioè «una messinscena orchestrata ad hoc dall’imputato di cui risultavano documentate anni e anni prima le “frequentazioni” poco raccomandabili al fine di ripulire la propria immagina pubblica». Ne parlano i pentiti: sia Raffaele Moscato che Andrea Mantella («l’abbiamo conosciuto sempre come uno ’ndranghetista a Vibo Valentia si atteggiava, poi si è buttato in politica e voleva fare il paladino dell’Antimafia»).

È vero che con alcuni interlocutori Giamborino condanna la mafia di Vibo ma a nessuno di essi accenna «agli incontri serali con Salvatore Giuseppe Galati». Con Galati, anzi, non mostra il proprio profilo antimafia e si dimostra, anzi, «partecipe di problematiche associative sulla spartizione degli introiti dei lavori pubblici a Piscopio, piuttosto che coinvolto nella raccolta di preziose informazioni sulla presenza di attività delle forze dell’ordine nel paese o sulle future esecuzioni cautelari che li possano interessare».

In Giamborino coesistono due anime, «quella volutamente integerrima dell’uomo politico e quella più intima e segreta che emerge negli incontri con Salvatore Galati o Filippo Valia, nei quali si evince perfettamente il suo ruolo funzionale agli interessi del locale». 

«Giamborino ha preso i voti della ’ndrangheta dal 2002»

Anche rispetto al consenso elettorale la Dda prova a smontare i dubbi dei giudici, per i quali dalle parole dei pentiti non è possibile individuare il periodo storico delle condotte del politico (se si riferiscano alle elezioni del 2002, del 2005 o del 2010) e la controprestazione posta in essere per favorire l’associazione mafiosa.

Per i pm invece non ci sono dubbi: «Il dato che rileva è che la ’ndrangheta abbia avuto, a partire dal 2002, un ruolo attivo nel procacciamento di un pacchetto di voti garantito dalla cosca in favore di Giamborino e di cui la cosca teneva il conto, costante che decorre in realtà fin dalla tornata del 2002». È un dato che emergerebbe dal file audio mancante, quello della conversazione tra il boss di San Gregorio d’Ippona Saverio Razionale e Giovanni Giamborino (contenuto nell’operazione Rima, la cui trascrizione viene evidenziata nell’appello): i due «utilizzano i tipico linguaggio usato dal mafioso che conteggia i voti raccolti per la propria organizzazione». «E Pietro li ha presi… a Vibo no però… a Piscopio ci aspettavamo 250 voti… sappiamo chi ci ha tradito… a Vibo non ci ha votato nessuno…», dice Giovanni Giamborino». E Razionale abbozza: «Sì… non ne abbiamo preso insomma». 

Callipo, i voti «chiesti e voluti dal clan» e l’incrocio con Razionale al matrimonio

Anche per la posizione dell’ex sindaco di Pizzo Gianluca Callipo la Dda considera insufficienti le motivazioni del giudice di primo grado che ha totalmente assolto Callipo. dalle contestazioni davanti a una richiesta di pena di 18 anni. Nel suo caso, secondo il Collegio giudicante del processo Rinascita Scott non si raggiunge la soglia probatoria necessaria a una pronuncia di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. La Procura distrettuale fa partire il proprio ragionamento da una intercettazione registrata in un distributore di carburanti a Pizzo tra il vertice della ’ndrina del luogo, Salvatore Mazzotta, due suoi cognati e un uomo considerato esponente della cosca Mancuso. Il gruppo decide delle elezioni amministrative «appellando confidenzialmente il candidato “Gianluca” e con la precisazione in ordine non secondario “domani lo faccio chiamare da Daniele (Pulitano, ndr) e glielo dico pure io. Gli dico: o Gianluca, considera pure lui perché mi ha detto di sì, che gli dobbiamo portare (…) e vedi che lui si impegna».

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Per i pm la conversazione parla di un procacciamento di voti in cambio di una contropartita, fatto che sarebbe avvenuto nel 2017. Si fa poi riferimento a un altro incontro, sempre riservato, e mediato da un conoscente comune: secondo la Dda «viene in rilievo un patto elettorale che la ’ndrina stringe con il sindaco in funzione della sua rielezione». Dopo l’incontro, si legge nell’appello, «segue, in effetti, il voto degli esponenti della famiglia Mazzotta dichiaratamente favorevole al sindaco Callipo».

Una conversazione in carcere tra Mazzotta e i propri familiari conferma che i voti della famiglia sarebbero andati a Callipo. Mentre in un altro dialogo sarebbe Luca Belsito a lamentarsi dicendo che «il sindaco Callipo non ha fatto niente nonostante quando ha voluto i voti li ha voluti». È un passaggio importante per la Dda, dal quale «emergono due dati: Callipo i voti del sodalizio li ha chiesti e li ha voluti; è Luca Belsito, non già Salvatore Mazzotta o uno dei protagonisti delle precedenti vicende e delle pregresse conversazioni a lamentarsi che il sindaco “non ha fatto niente”, dopo avere voluto i loro voti». È l’attribuzione della frase “non ha fatto niente” a far pendere, secondo i magistrati antimafia, il giudizio dalla parte dell’assoluzione. A pronunciarla, però, non sarebbe stato uno dei soggetti con i quali Callipo avrebbe stretto il presunto patto; per questo quella frase – e tutto il contesto – andrebbero rivalutati.

Altro passaggio: i rapporti tra Daniele Pulitano e il boss Saverio Razionale. «Pulitano – sottolineano i pm di Catanzaro – aveva chiesto a Callipo, che inizialmente aveva accettato, di fare da testimone di nozze e a Razionale di fare da compare d’anello». Lo racconta proprio l’ex sindaco nell’interrogatorio del dicembre 2022. Dice anche nell’agosto 2019, la sintesi è degli inquirenti, «al ricevimento organizzato al Mocambo in occasione della promessa di matrimonio aveva visto ai tavoli un signore che gli veniva indicato come Saverio Razionale, boss della ’ndrangheta».

Aggiungeva poi «che nel settembre 2019, due o tre giorni prima del matrimonio, a specifica domanda rivolta a Pulitano sulla presenza di Razionale, questi gli riferiva che era il suo compare d’anello e per tale ragione Callipo rinunciava a rivestire il ruolo di testimone di nozze».

Per la Dda ci sono due passaggi che «stridono con la narrazione di “presa di distanze” dal contesto criminale effettuata da Callipo nel corso dell’esame» in aula.

Il primo: l’ex sindaco «il 3 ottobre 2017, trovandosi presso il ristorante la Polena si era recato a stringere la mano a Saverio Razionale, che era in compagnia del Pulitano». Il secondo: «appare perfino un’ovvietà che il sindaco in carica del comune di Pizzo (che prendeva parte con circospezione e sempre con la “salvifica” mediazione del Pulitano, ad incontri con il sorvegliato speciale odierno imputato Salvatore Mazzotta, vertice della ‘ndrina di Pizzo, e con lo zio di questi, Domenico Antonio Cicone detto “Mimmo la bestia”, già condannato nel processo Dinasty ed oggi cautelato e rinviato a giudizio per associazione mafiosa quale appartenente alla cosca Mancuso) ritirasse la propria disponibilità a rivestire il ruolo di testimone di nozze di un amico che aveva indicato quale compare d’anello Saverio Razionale».

Nessuna presa di distanze vi sarebbe stata, secondo la Procura distrettuale antimafia. Callipo sarebbe in realtà stato un «riferimento per il sodalizio, nella risoluzione di problematiche inerenti alla propria funzione di sindaco».

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