La mistica «dell'oratorio» contro quella della «cultura perversa». Dice di provenire dalla prima, Pietro Giamborino. Lo rivendica con forza, rivolgendosi con deferenza tutta meridiana ai giudici e al «chiarissimo pubblico ministero». Con la mafia giura di non aver mai avuto a che fare, eppure è per questo che si ritrova sotto processo. E oggi in aula ha avuto la chance di spiegare le proprie ragioni. «Aspettavo questo momento da tre anni».

Sulla scena del processo Rinascita-Scott era in programma il suo esame da imputato, appuntamento che l'ex consigliere regionale di Margherita e PD ha affrontato sfoderando il migliore dei suoi eloqui, quello che in trent'anni lo ha portato dalla piazza della minuscola Piscopio, teatro dei primi comizi, ai banchi della politica che conta. Il problema è che oggi la Dda ritiene parte dei suoi successi elettorali drogati dall'appoggio della «cultura perversa», ovvero della 'ndrangheta. «L'ho detto davanti al prefetto De Sena: chi va a chiedere voti a mio nome a rappresentanti della cultura deviata, non sarà ricordato nelle mie preghiere». Quel giorno a Piscopio pensarono che «Pietro loro» volesse farsi sacerdote. «Mo' fa pure scomuniche e anatemi».

Il pm Antonio De Bernardo lo ha messo a proprio agio, facendogli snocciolare le tappe della sua carriera politica: dall'elezione nel consiglio comunale di Vibo Valentia (1994) al doppio strike in consiglio regionale (trionfale nel 2005, da subentrato nel 2010) passando per gli anni in Provincia, da consigliere e assessore. Un accenno all'amicizia con Francesco Rutelli, a quella «con il compianto Franco Fortugno» e poi, il rappresentante dell'accusa è andato dritto al punto.

Il pm gli ha chiesto conto dei suoi rapporti con Pino Galati "Il ragioniere", uomo d'ambiente di Piscopio e suo cugino diretto. «Ci passiamo dieci anni, non ci siamo cresciuti insieme» è l'incipit della sua risposta; «era un giocatore di carte, dorme di giorno e veglia di notte» il motivo per cui non lo frequentava. E poi «non lo ritenevo utile in termini elettorali» la spiegazione per cui sostiene di non avergli mai chiesto un voto. Presa di distanza sì, ma senza abiure. Ci sono gli incontri sotto la finestra del suo ufficio descritti in alcune captazioni che meritano una risposta. Eccola: «Mi dispiaceva, passava sempre da lì e io gli chiedevo di entrare, ma lui diceva no, no che così ti danneggio».

Un'altra intercettazione lo vede, a colloquio con suo nipote, tessere l'elogio della "Società d'onore", quella che mai avrebbe ammesso tra le proprie fila uno con le sorelle «puttane e sventurate». Giamborino li inquadra come «fatti di paese di 75 anni prima», ma De Bernardo insiste: vuole sapere cos'è la Società d'onore. Si parla della vecchia 'ndrangheta, che in quella conversazione Giamborino mette a confronto con la nuova, «ma dico anche che sono sbagliate tutte e due, leggiamola tutta l'intercettazione».

I pentiti che puntano il dito contro di lui non sa come definirli. «Collaboratori di giustizia» lo stuzzica il pm, ma la risposta è in punta di fioretto: «Non ne sono innamorato, ma per rispetto alla signoria vostra...». In seguito li chiamerà «prezzolati dello Stato» e riguardo ai suoi accusatori - Andrea Mantella, Raffaele Moscato, Bartolomeo Arena - prova a picconare quelle che definisce «le loro bugie». Il pm lo circonda: «Ok, ma perché dovrebbero mentire?». È qui che entra in gioco la figura del cugino "buono", il magistrato Pietro D'Amico, anche lui piscopisano di nascita, deceduto nel 2013. «Ero suo consulente culturale, stavamo sempre insieme. Questo mi ha attirato di certo le antipatie dei criminali. Mi vedevano come sbirro e carabiniere. E poi forse non è andato giù che uno di Piscopio non si piegasse a loro».

Si procede a ritmo serrato. L'accusa gli chiede conto di quel controllo di polizia a Pizzo, nel 1990, quando lo trovano in compagnia di Pantaleone Mancuso alias "Vetrinetta". Giamborino lo definisce «un incontro casuale, mai conosciuto un Mancuso in vita mia». E anche il presunto interessamento in favore del cugino Galati, per consentirgli di aprire un bar, deriva per lui da un'intercettazione non equivoca, ma equivocata. «In realtà peroravo la causa di una dottoressa che in modo legittimo aspirava a un aumento del monte ore. Fece ricorso in autotutela».

Insomma, la 'ndrangheta non l'ha mai favorita, semmai «l'ho osteggiata». Accetta per sé la definizione di "uomo d'onore" ma non nel senso distorto e ormai comune: «Sono un uomo d'onore perché ho sempre servito le istituzioni senza mai piegarmi al malaffare». E nella fine sta anche il suo principio: il richiamo al cattolicesimo e al processo che lo riguarda. «Mai avrei pensato di trovarmi in questa situazione, ma porto questa croce. I cattolici non si spaventano, in paradiso non si va in carrozza».

Durante il controesame, i suoi difensori Enzo Belvedere e Domenico Anania hanno toccato agilmente alcuni punti sensibili: la figura di D'Amico e poi quella del padre dell'imputato, minatore morto nel 1969 mentre lavorava alla costruzione di una galleria. Un accenno anche a quanto denunciato da Giamborino nel 2014, dopo la sua sconfitta alle Primarie indette dal Pd per la scelta del candidato a sindaco di Vibo. Convocato dal Comitato per l'ordine pubblica e la sicurezza, Giamborino parlò in quel caso di competizione condizionata dalla criminalità. Belvedere ha poi ripreso l'ormai celebre intercettazione fra Giamborino e il nipote, leggendo in aula la chiosa di quel dialogo risalente al 2018: «Filippo - dice il politico al suo congiunto - aveva ragione Falcone. Tutto questo finirà, anche se loro non l'hanno compreso». In cosa all'udienza il pubblico ministero ha chiesto l'acquisizione di atti provenienti da inchieste del passato e riferiti tutti alla posizione di Giancarlo Pittelli.