Le dichiarazioni dell’ex boss della Sibaritide nell’inchiesta della Dda sulla faida nelle Preserre vibonesi. L’ospitalità offerta ai Maiolo dopo il tentato omicidio di Enzo Taverniti e in seguito alla mattanza nella frazione di Gerocarne
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Dopo una mattanza non resta che stringere un patto con il diavolo. Che il soprannome sia gradito o meno cambia poco: Antonio Forastefano, ex boss della Sibaritide ed ex collaboratore di giustizia, avrebbe ospitato uno dei killer della strage di Ariola, triplice omicidio su cui una recente inchiesta della Dda di Catanzaro prova a far luce. Di più: il “diavolo” lo avrebbe fatto per due volte. La prima dopo un tentato omicidio organizzato sempre nella zona delle Preserre cosentine e sempre dagli azionisti del clan Maiolo, legati agli Emanuele e alleati dei Forastefano. Andiamo con ordine.
Prima della strage di Ariola, la faida che ha insanguinato le Preserre vibonesi ha vissuto un altro episodio consegnato alle cronache giudiziarie dell’inchiesta della Dda di Catanzaro che, nei giorni scorsi, ha portato in carcere 13 persone. I giorni di Enzo Taverniti, detto anche Cenzo d’Ariola o Cinghiale, sarebbero dovuti terminare secondo i suoi nemici d’allora il 9 settembre 2003. Oggi Taverniti è un pentito, così come Michele Ganino che, nei suoi interrogatori, aiuta a ricostruire qualche tassello di quel tentato omicidio. L’auto, innanzitutto: una Mercedes che Ganino era solito prestare a Francesco Maiolo e che sarebbe stata usata nell’agguato fallito.
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Il resto del puzzle conduce in provincia di Cosenza. È, infatti, a Montalto Uffugo che viene ritrovata, parzialmente bruciata, l’autovettura. Accade il 17 settembre 2003 e Montalto si trova sulla direttrice che porta al luogo in cui i fratelli Maiolo, «dopo il compimento dell’azione di fuoco», si sarebbero rifugiati.
La versione del "diavolo"
Se lo dice il diavolo ci si può fidare: Antonio Forastefano, 53enne ex capo clan della Sibaritide ed ex collaboratore giustizia, avrebbe ospitato i Maiolo per dovere di alleanza. Luciano Oliva, pentito 50enne di San Fili, conferma. Entrambi, appuntano i magistrati antimafia, «hanno riferito che dopo il tentato omicidio di Enzo Taverniti, i fratelli Maiolo avevano trovato rifugio tramite Bruno Emanuele presso di loro, nella zona di Firmo, ove sono stati bruciati i vestiti utilizzati nella sparatoria». Sia Forastefano che Oliva individuano esattamente il mezzo con il quale i Maiolo (Angelo e Francesco, classe ’70) arrivano a Sibari: una Mercedes.
Oliva parla di «questi due ragazzi con la barba e con i vestiti militari» e riferisce che Forastefano gli «disse che dovevano cambiarsi i vestiti perché avevano sparato; mi disse anche che facevano parte del gruppo di Bruno Emanuele», a cui il clan Maiolo in effetti era subordinato. «Ho capito - spiega ai magistrati - che i due avevano sparato al soggetto definito il cinghiale con un fucile e dicevano di averlo ferito a pallettoni». In nome dell’alleanza con gli Emanuele, i Maiolo vengono ospitati e protetti.
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Il “diavolo” Forastefano conferma: «Sono arrivati da me, sono arrivati da me. Io sono sceso, ci siamo, erano dietro le stalle, ha detto: “Abbiamo provato, ci è andata male, ci è scappato”. Nella testa mia ho pensato: lo sapevo, perché era un cinghiale quello». I Maiolo restano in zona: uno dei due (Francesco) è sottoposto alla sorveglianza e la sua assenza non lascia indifferenti i carabinieri: viene arrestato il 18 settembre dopo aver tentato di forzare un posto di blocco. Continua a leggere sul Vibonese.it