Ha raccontato di aver ucciso il cugino di sua moglie perché non ne poteva più delle vessazioni subite da parte della vittima. La versione di Giuseppe “Pino” Sicari – 62enne che nel novembre del 2022 ha ucciso a colpi di pistola Francesco Giuseppe Fiume, un pizzaiolo di 44 anni – non ha convinto i giudici del Tribunale di Reggio Calabria, per i quali l’azione è stata un vero e proprio agguato consumato con «glaciale freddezza». Nove colpi di pistola esplosi in pochi secondi senza tentennare. Una furia sulla cui preparazione restano, per la Corte presieduta da Natina Pratticò, alcuni dubbi. Restano, per ora, tali in assenza – si sottolinea nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Sicari a 16 anni – di approfondimenti investigativi sul movente e sulla possibile premeditazione.

Delitto Fiume, il movente delle vessazioni non regge

Partiamo dalle vessazioni che avrebbero provocato l’omicidio: le valutazioni della giuria vanno in direzione diversa rispetto al racconto dell’assassino: per un verso gli episodi di vessazione registrati tra il 2013 (anno in cui Fiume ha lasciato il carcere) e il 2022 «sono assai limitati»; per altro verso «sono genericamente riferiti dai testi e spesso non coincidenti». I magistrati parlano di «rapporti certamente conflittuali tra la vittima e l’autore dell’omicidio»; questi rapporti però non rientrano «nella categoria degli atti persecutori unidirezionalmente posti in essere da Fiume nei confronti di Sicari». Piuttosto, si tratterebbe «di episodi di esecrabile inciviltà e anche di rilievo penale», ma non di un «contesto persecutorio».

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Ipotesi da scartare, tra le altre cose, perché «è incontestato che Francesco Fiume si sia sposato nel 2018, quando, a detta della famiglia Sicari, le angherie erano perpetrate già da sei anni, e che Fiume sia andato a invitare al proprio matrimonio Giuseppe Sicari». Un episodio che «fa dubitare circa l’esistenza all’epoca di una frattura così insanabile tra le due famiglie». La giuria non ritiene sussistente neppure l’ipotesi che Sicari abbia agito per paura che Fiume prendesse di mira suo figlio. «Ho giurato a tua madre che non ti tocco», la vittima avrebbe riferito al giovane secondo un testimone oculare.

I dubbi dei giudici sul contesto del delitto: «Indagini non esaustive»

Sgombrato il campo dai primi dubbi, è il giudice a porre una domanda: «Qual è il reale contesto nel quale l’omicidio di Francesco Fiume matura?». La risposta è tranciante: «Sul punto le indagini non sono state esaustivamente condotte». Cioè non sono stati forniti «elementi validi» per chiarire la ragione di questo profondo conflitto familiare». È emerso che Fiume ritenesse Sicari responsabile del suo arresto, arrivato dopo una soffiata anonima per detenzione abusiva di armi, e lo chiamasse «sbirro e infame». Per tutta risposta, la vittima avrebbe poi tolto a Sicari la disponibilità del fucile appartenuto al padre. Risentimenti reciproci per due episodi «troppo distanti nel tempo per poter concludere che siano stati alla base del motivo scatenante l’omicidio».

Per il Tribunale «lo scenario nel quale matura l’omicidio è ben più complesso di quanto non sia stato offerto dall’imputato e dai testi che ne hanno, spesso goffamente e contraddittoriamente» e anche «mendacemente, supportato la versione». Insomma, il movente prospettato dall’accusa «non supera la prova della resistenza» ma resta «l’evidenza della responsabilità di Sicari per il gesto omicidario». Un fatto «che consente» ai giudici «di non spingersi a esplorare moventi alternativi, ciò che forse più opportunamente andava fatto in sede di indagini».

I rapporti tra Mangano e Fiume

Le motivazioni della sentenza evidenziano che «anche i rapporti tra Gregorio Mangano e Francesco Fiume non fossero idilliaci, ma non nella prospettiva offerta da Mangano secondo il quale, inopinatamente, Fiume lo insultava e insultava anche i suoi parenti, compreso il fratello morto». Il figlio di Mangano, secondo i giudici, avrebbe «minacciato di ammazzare Fiume» provocando la redazione della vittima «nei confronti dei “Babba”, pseudonimo con il quale sono appellati i Mangano a Catona». In questo caso, dopo uno scambio di battute con Mangano, «il timore - sono sempre parole dei giudici - è di Fiume» che scrive in un messaggio: «Io ho un audio delle minacce tue e di tuo figlio che mi spara in testa che ho consegnato al mio avvocato e se mi succede qualcosa i responsabili siete tu e tuo figlio». 

Lo scontro prima dell’omicidio

La sentenza si occupa poi di riscrivere il film della tragedia a partire dallo scontro tra Fiume e il figlio dell’assassino, Giovanni Sicari. È proprio lui ad avvicinarsi per primo alla vittima e a sferrare uno schiaffo che colpisce Fiume di striscio: viene poi sopraffatto dalla reazione di Fiume che, tuttavia, desiste dallo sferrargli un pugno in nome della promessa fatta alla madre di Sicari. Una ricostruzione, questa, che fa vacillare «la tesi che l’uccisione di Fiume sia da ricondurre» alle sue persecuzioni.

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Non è tutto: i Sicari (padre e figlio), Gregorio Mangano e Antonino Rossetti raccontano di essersi visti nell’ufficio di Giuseppe Sicari la mattina dell’omicidio e di aver preso la decisione di denunciare Fiume, stanchi delle sue vessazioni. «Inspiegabilmente», però, anziché andare in caserma o in Questura, «decidono di passare da casa». Da quel momento in poi i racconti dei testimoni sono, per i giudici, poco credibili. I loro movimenti di quella mattina hanno «plausibilmente» lo scopo «di sorprendere la vittima ovvero di organizzare l’agguato» ai danni di Fiume. I due Sicari e Mangano «mentono anche sulle modalità dell’omicidio». Secondo loro «Fiume avrebbe avuto la tracotanza» di raggiungere l’abitazione di Sicari, «di sfidarlo, ingiuriarlo e minacciarlo, fino a provocarne le reazione omicidiaria».

«È stato un agguato»: il film del delitto e le bugie dei testimoni

Le motivazioni chiariscono che non è andata così: «Il video consente di avere immediata percezione del fatto che Giuseppe Sicari fosse in atteggiamento di attesa della vittima (…) che pare assai evidente essere stata certamente attirata» nei pressi dell’abitazione dei Sicari. Non ci sono riscontri certi di questa “convocazione” di Fiume, ma «da un punto di vista logico – insistono i giudici – non è in alcun modo sostenibile che Fiume sia andato sotto casa di Giuseppe Sicari per insultarlo o minacciarlo, posto che all’ora dell’omicidio Sicari doveva essere in ufficio e Fiume non poteva sapere che aveva preso un permesso per uscire». Né si può sostenere «che il passaggio sia stato casuale» perché la strada in cui si è consumato il rendez vous finale non è pubblica. Giuseppe Sicari passeggia nervosamente davanti al cancello di casa «per ben quindici minuti» assieme a Mangano. Alle 13,45 Giovanni Sicari entra nella villa a bordo della sua Audi. Quattro minuti dopo, suo padre alza «lo sguardo verso l’interno da cui è provenuto un segnale»: lui e Mangano percorrono il vialetto adiacente alla recinzione della villa e scompaio dalla visione delle telecamere.

Alle 13,52 Giuseppe Sicari riappare per percorrere lo stesso vialetto e si piazza al centro della strada. Pochi secondi dopo arriva Fiume e tutto avviene in otto secondi: tanti ne servono all’assassino per scaricare 9 colpi di pistola sulla vittima.

«Azione fredda e istantanea»

«L’azione è fredda e istantanea - si legge nelle motivazioni -, non vi è tempo per la vittima di alcuna reazione e, prima ancora, di alcuna provocazione. Non c’è stato il tempo per Fiume di dire alcunché né per Giuseppe Sicari di percepire alcun pericolo per sé o per gli altri». Mangano non sta mangiando un’arancia sotto il portico, come ha dichiarato: lo provano le immagini delle telecamere. È, in effetti, «negli immediati pressi dell’azione omicidiaria. Già le telecamere lo riprendono pochi secondi dopo che l’omicidio si è consumato. Di più: «Guarda Giuseppe Sicari sincerarsi di aver ucciso Fiume e sputare al suo indirizzo», poi i due «con estrema calma si accingono ad andare a far costituire» l’assassino. Da fuori, Sicari «grida qualcosa a chi sta dentro casa. Sembra non aver alcuna espressione di pentimento, ma solo di aver realizzato il piano omicidiario».

Sono i giudici a parlare di «agguato», ma il «mancato approfondimento» delle dichiarazioni della compagna di Fiume, che pure «ha riferito di pedinamenti» ai danni della vittima, «impone di ritenere» che l’idea di compiere il delitto «sia maturata estemporaneamente poche prima dell’omicidio». Non c’è, dunque, l’aggravante della premeditazione. Ma neppure vengono concesse all’imputato le attenuanti generiche: lo stato d’ansia denunciato da Sicari mal si concilierebbe, per i giudici, con una «determinazione» e con la «glaciale freddezza» mostrata nella circostanza dell'omicidio. Peraltro, la Corte osserva che l’uomo, «per placare lo stato d’ansia dal quale si sentiva oppresso, ben avrebbe potuto andare immediatamente a denunciare quanto meno gli ultimi episodi che asseritamente ne hanno scatenato la furia omicida». Invece «ha preferito tornare a casa e attirare la vittima nell’agguato mortale».