Gli aiuti europei erogati da Arcea sarebbero andati a soggetti vicini alle cosche. Il caso di un 57enne di Rosarno: condannato per associazione mafiosa, ha ottenuto 20mila euro. La domanda inviata con il timbro del carcere ma i funzionari dimenticano i controlli
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Nei documenti depositati per chiedere (e ottenere) gli aiuti di Stato era un agricoltore come tanti. Per quello stesso Stato, però, è anche un affiliato alla ‘ndrangheta con tanto di sentenza definitiva di condanna. È la storia di un 57enne di Rosarno che, al termine dell’istruttoria della Corte di conti, dovrà restituire 16mila euro.
Il caso singolo, pure significativo, è parte di fenomeno più ampio. E di un’inchiesta che si sviluppa con accertamenti sulle posizioni di «soggetti sodali o contigui» alla ’ndrangheta che avrebbero ottenuto contributi pubblici finalizzati all’esercizio dell’attività agricola. I fascicoli aziendali sono stati acquisiti nei Centri di assistenza agricola e, secondo la valutazione contenuta in una sentenza della magistratura contabile, «sarebbe stata riscontrata la complicità dei pubblici ufficiale e/o incaricati di pubblico servizio». Un’accusa rivolta a «responsabili e operatori di Centri di assistenza agricola» dei quali sarebbe stata «riscontrata la complicità», se non altro per una mancanza di verifiche. Alcuni dipendenti delle strutture delegate a formare e trasmettere alla pubblica amministrazione le istanze di pagamento sarebbero stati, infatti, «a perfetta conoscenza dello stato restrittivo dei richiedenti i contributi».
Operazione Glicine | L’anima di terra della ‘ndrangheta: il controllo delle attività agricole è ancora il chiodo fisso della mafia
La condanna per associazione mafiosa e i fondi ottenuti
Il caso di R. O., aiuta a chiarire un pezzo di questa indagine più vasta. L’uomo è, infatti, titolare di un’impresa individuale che si occupa di colture agrumicole, come risulta dalla visura catastale allegata alla denuncia di danno. La ditta, per i guai giudiziari del 57enne, è stata sottoposta a sequestro penale nel 2014; il suo titolare invece «è censito dall’Inps come agricoltore, sebbene i rapporti con l’istituto previdenziale risultino interrotti dal 2009 al 2018». Il fatto è che R. O. è stato condannato per associazione mafiosa a sei anni di reclusione con interdizione legale per la durata della pena e interdizione perpetua dai pubblici uffici. La sentenza è irrevocabile dal 2016 e, in seguito a quella pronuncia, l’uomo è stato sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, con provvedimento del 15 settembre 2017 divenuto definitivo il 13 settembre 2018. Il presunto agricoltore ha inoltrato domande di pagamento per il 2012 e il 2013: la somma erogata supera i 16mila euro. Per la Procura della Corte dei conti non avrebbe avuto diritti ai fondi. Due i motivi evidenziati: su una serie di particelle «non vi sarebbe prova del titolo di legittimazione alla conduzione». Ma soprattutto, il 57enne «non aveva i requisiti di “agricoltore” atteso lo stato restrittivo che non gli consentiva di esercitare una qualsivoglia attività agricola né in senso stretto né in forma imprenditoriale». Non sarebbe l’unico, stando agli approfondimenti investigativi.
Il timbro del carcere sulla domanda per ottenere i contributi
R. O., sottolinea la Procura, «in qualità di persona detenuta non poteva soddisfare i requisiti di “agricoltore” ai fini del percepimento dei contributi», perché era «formalmente e sostanzialmente impossibilitato a condurre i terreni dichiarati». D’altra parte non poteva svolgere «alcuna attività nella propria azienda agricola, in quanto ditta individuale», non avrebbe potuto certo renderla operativa mentre si trovava in carcere. Il lato paradossale della vicenda è che lo stesso “agricoltore” fornisce le prove all’accusa: entrambe le domande per i contributi erogati da Arcea, infatti, presentano il timbro di autentica della sua firma «apposto e sottoscritto dal personale della Casa circondariale di Catanzaro». Per il pm «non poteva essere considerato agricoltore attivo».
Truffa all’Inps | Le cosche di ’ndrangheta di Cassano dietro ai falsi braccianti: più di 140 persone a processo
Il giudice accoglie l’ipotesi del pubblico ministero ma non perché il 57enne di Rosarno fosse sottoposto a custodia cautelare. Semmai, il motivo per il quale l’uomo non potesse dirsi “agricoltore in attività” è legato alle condanne definitive riportate e alla misura della sorveglianza speciale. Valgono i precedenti per i quali «l’assoggettamento a misura di prevenzione definitiva preclude il riconoscimento di benefici pubblici e determina la decadenza di quelli concessi, a prescindere dal periodo di efficacia della misura». Per i magistrati contabili «l’erogazione di somme è avvenuta in violazione dei requisiti previsti per la concessione di aiuti comunitari».
Per i dipendenti del Caa l’uomo si sarebbe presentato in ufficio. Ma era in carcere
Viene censurato anche il comportamento dei dipendenti dei Caa: avrebbero infatti certificato Domande uniche di pagamento non rispondenti al vero. Nonostante la presenza del timbro della casa circondariale, infatti, i pubblici ufficiali «non soltanto non si sono astenuti dal trasmettere le domande ad Arcea, o dal comunicare la particolare situazione» dell’uomo, «all’epoca detenuto, ma addirittura hanno dichiarato che “il produttore si è presentato presso questo ufficio ed è stato identificato”, senza consentire all’Arcea di verificare la situazione e permettendo così l’erogazione diretta del contributo, senza ulteriori approfondimenti, in violazione della procedura ordinaria». Difficile credere che R. O. si fosse presentato in ufficio, visto che era in carcere. Dunque Arcea, che eroga i fondi comunitari, sarebbe stata tratta in inganno o quantomeno non avrebbe avuto in mano tutti gli elementi per decidere.
La Corte dei conti condanna anche i controllori
L’agricoltore ‘ndranghetista, da parte sua, due mesi prima della presentazione della domanda era stato condannato dal gup di Reggio Calabria «per fatti di mafia commessi in territorio nazionale, in Canada, Germania, Svizzera e Australia fino al marzo 2011». Non poteva non sapere, dunque, «che la legislazione antimafia ritiene i soggetti condannati per mafia sostanzialmente inidonei a ricevere fondi dallo Stato». Tutti condannati a risarcire l’Erario, ciascuno per la propria parte. Il 57enne per aver cercato di bypassare i controlli, i funzionari per non aver effettuato accertamenti, segnalando di aver ricevuto di persona la domanda di un uomo che si trovava in carcere. Il fenomeno degli agricoltori ’ndranghetisti non si limita al singolo caso. L’inchiesta è più vasta, sfiora uomini legati ai clan e dipendenti dei Centri di assistenza agricola.