La storia paradossale di un uomo arrestato nel 2006 per spaccio. Si rifà una vita al Nord e resta lontano dai guai ma la condanna definitiva arrivata nel 2023 lo manda in prigione per scontare un residuo di pena. La piccola bugia ai figli per nascondere la vergogna: «Vado in ospedale per un controllo»
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Ai figli ha raccontato una piccola bugia: un ricovero di qualche giorno in ospedale per effettuare controlli di routine. L’azienda per cui lavora è stata comprensiva: il protagonista calabrese di questa storia ai confini della giustizia avrebbe potuto perdere il posto di lavoro ma lo conserverà. È finito in carcere per espiare una pena per fatti che risalgono a 18 anni fa. All’epoca aveva 22 anni: è stato prima indagato e poi condannato per spaccio di hashish e marijuana ma i tempi della giustizia hanno confezionato un pastrocchio. E la pena residua – appena nove giorni – è calata su una persona diversa da quella arrestata nel 2006 a Reggio Calabria. Un giovane che è diventato uomo e nel frattempo si è trasferito al Nord e ha trovato un lavoro stabile, si è sposato e ha avuto due figli. Da quell’inchiesta non ha mai più avuto problemi con la giustizia fino all’ordine di carcerazione arrivato nelle scorse settimane.
È il Foglio a ricostruire le tappe della vicenda processuale: nel 2006 scatta l’arresto per spaccio e il giovane trascorre un anno e 21 giorni in custodia cautelare: 9 mesi in carcere, il resto ai domiciliari. Il procedimento segue due diverse strade processuali: una si concentra sull’attività di spaccio, l’altra punta a dimostrare l’esistenza di un’associazione finalizzata al traffico di droga (perché i ragazzi coinvolti raccoglievano i soldi e poi si spartivano hashish e marijuana da piazzare sul mercato).
I tempi giudiziari esplodono: nel 2017 l’uomo viene condannato a 3 anni e 6 mesi nel primo filone (quello per lo spaccio), ma per effetto dell’indulto del 2006 e della carcerazione preventiva non torna in carcere. La seconda parte si chiude nel dicembre 2023: dai fatti sono trascorsi 17 anni ma arriva la condanna per l’accusa di associazione. Da questo punto in poi è tutta burocrazia. I calcoli della giustizia restituiscono il conto finale: la pena residua è di 9 giorni di reclusione. Per Gianpaolo Catanzariti, avvocato del protagonista della storia, quei giorni sarebbero coperti dai tre mesi di libertà anticipata maturati durante la carcerazione preventiva. Niente da fare: l’associazione finalizzata al traffico di droga è uno dei cosiddetti reati ostativi e non prevede l’applicazione di benefici previdenziali.
Così, a giugno, l’uomo – dopo aver detto ai propri figli che si assenterà per un check up medico – viene portato in carcere dai carabinieri. «È stato un trauma», spiega sempre al Foglio l’avvocato Catanzariti. «Una condanna che si materializza a diciotto anni di distanza dei fatti, e che consiste in nove giorni di carcere, la dice lunga sul senso della funzione della pena che si ha in questo Paese», aggiunge. La rieducazione del condannato era nei fatti: quello che era un giovane spacciatore ha cambiato vita. Per il legale il carcere non era l’unica opzione a così tanti anni di distanza da quell’arresto.