Francesco Iacopino, difensore del presidente del Consiglio regionale, commenta l'esito della camera di consiglio: «L'accusa riguarda un'ipotesi di truffa per poche centinaia di euro»
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«Il gup del Tribunale di Catanzaro, all’esito dell’odierna camera di consiglio, ha disposto il rinvio a giudizio di tutti gli imputati nel processo noto come Gettonopoli. Pur rispettando il provvedimento giurisdizionale non si può fare a meno di evidenziare, per la rilevanza sociale e politica assunta dalla vicenda, come la decisione del Tribunale si risolva in un trattamento ‘orizzontale’ di situazioni tra loro differenti». Lo dichiara in una nota il legale Francesco Iacopino, difensore del presidente del Consiglio regionale della Calabria Filippo Mancuso.
Il politico catanzarese al vertice dell'assemblea regionale è stato rinviato a giudizio nell'ambito dell'inchiesta Gettonopoli per il reato di truffa. «Occorre, preliminarmente, sgombrare il campo da un possibile equivoco: al dottor Filippo Mancuso non è contestato alcun delitto di falso, dal momento che tale originaria ipotesi investigativa (peraltro riguardante tutti i consiglieri) è stata ritenuta inconsistente dallo stesso pm, già in fase di indagini, tanto da essere stata accantonata dallo stesso ufficio di Procura».
«Il cuore dell’accusa - prosegue la nota -, allora, ha riguardato, e riguarda, oggi esclusivamente una ipotesi di truffa (per poche centinaia di euro) legata alla diversa lettura del dato relativo alla “effettiva partecipazione” dei politici alle commissioni consiliari. Secondo la Procura occorreva (ed occorre) avere riguardo ad un dato “quantitativo” e, pertanto, non sarebbe stato possibile considerare “effettive” le partecipazioni non “totalitarie” o di durata inferiore all’intera seduta, con la conseguenza che, in siffatte ipotesi, il Comune non avrebbe dovuto riconoscere alcun “gettone” (parliamo, come detto, di somme esigue) ai consiglieri.
Secondo le difese, invece, la partecipazione “effettiva” andava (e va) intesa in senso “qualitativo”, sia perché anche l’assenza temporanea dalla seduta – in occasione della trattazione di un determinato argomento – assume una valenza politica (sicché il dato della presenza non può essere collegato solo a un criterio “temporale”), sia perché non vi era (come non vi è, ancora oggi) alcun regolamento comunale specifico che fissi i limiti di durata, quanto alla determinazione della “effettiva partecipazione” alle sedute.
A conferma di ciò, basti considerare che, nella prassi, si è sempre applicato per analogia il regolamento adottato per la partecipazione ai Consigli comunali, nei quali, invece, anche la presenza discontinua del consigliere (e se ne comprende agevolmente la ragione) è ritenuta idonea a integrare il requisito della “effettiva partecipazione”. Peraltro, la lettura “qualitativa” del predetto criterio, è stata recentemente sostenuta anche dalla stessa Corte di Cassazione. In particolare, in un caso identico, i giudici supremi hanno escluso che la partecipazione “non totalitaria” possa assumere rilevanza penale, tanto da confermare l’assoluzione disposta dalla Corte di appello di Messina per insussistenza del fatto.
Per tale motivo, ad avviso della difesa, la vicenda avrebbe potuto (e dovuto) trovare un suo esito liberatorio già nella odierna fase dell’udienza preliminare, avendo il presidente Mancuso operato sempre nel pieno rispetto di norme e prassi. Forte di queste ragioni, sostenute dal diritto e dal buon senso, il presidente è assolutamente sereno e certo che nel dibattimento, luogo deputato alla verifica in contraddittorio dell’ipotesi giudiziale, la sua posizione sarà chiarita definitivamente».