Sono tantissimi i giovani calabresi costretti a lavorare e studiare fuori regione. Una scelta obbligata a causa della mancanza di opportunità e di una realtà dove impera la corruzione e la ‘ndrangheta. La tavola imbandita con le squisitezze natalizie resta l’ultimo scampolo di Calabria che vale ancora la pena di essere vissuta
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Stanno arrivando. Mamme e padri, nonne e nonni, zie e zii, oliate le teglie, allineate le casseruole, indossate il grembiule. Svuotate i banchi frigo dei supermercati, tirate fuori il vino buono, apparecchiate la tavola. Stanno arrivando e sono tanti. Figli e figlie, nipoti e cugini sono in viaggio per trascorrere il Natale a casa e la stella cometa che li guida ha la forma di un peperoncino piccante.
Negli ultimi 15 anni sono oltre 182mila i giovani calabresi che hanno lasciato la loro regione per lavorare o studiare altrove. Quasi due terzi dei flussi migratori interni ed esteri, il 62,4%, si colloca nelle le fasce più giovani fino ai 34 anni di età (dati Demoskopica).
Il futuro della Calabria non sta più in Calabria. Torna a farci visita ogni anno, si siede a tavola con noi, trascorre in famiglia le feste, e poi va via di nuovo. Ciao amore, pensaci.
E ci pensano. Non in quanto genitori e affini, ma perché siamo radici, identità, appartenenza. Il ritorno e la ripartenza è una routine alla quale siamo ormai abituati, ma ogni anno ci ricorda il peccato originale di una regione incapace di offrire opportunità lavorative, stimoli all’altezza delle aspettative di chi sì, la taranta, wow!, che bello d’estate, in piazza, con i Giganti intorno che saltellano pure loro e un paio di birre in corpo… ma poi? Niente. Anzi, tutto, ma il peggio. Corruzione senza freni, ‘ndrangheta sempre e ovunque, servizi inesistenti. Pure prendere un pullman per andare a scuola, quando c’è, è grasso che cola.
Ovvio che vadano via, ovvio che non ritornino più, ovvio che la Calabria non cresca, non migliori, non si riscatti. Quelli che valgono, non perché siano i migliori ma perché sono i più giovani, quelli che avrebbero qualcosa da dire, fare, baciare, vanno via. Prendono il treno e tanti saluti. Con loro portano il “pacco” con il sugo della nonna, i pomodori secchi sottolio del papà, i peperoni della mamma. Gli amici con l’accento lombardo, piemontese, toscano l’aspettano il “pacco”. Sanno che quando tornano i colleghi calabresi ci sarà da leccarsi i baffi. A questo siamo ridotti nel quasi 2019. Il marchio di fabbrica è sempre lo stesso: specialità in salsa piccante. Che potrebbe pure andare bene, anzi benissimo, se però ci fosse dell’altro. Se quella ripartenza di figli e nipoti non fosse imposta da un’economia a pezzi, da Enti locali pieni di mafia, massoni e culi di pietra che stanno lì da un'eternità, da inchieste giudiziarie che buttano giù sindaci e presidenti come birilli, da lotte sindacali concentrate esclusivamente su 50enni precari da una vita, come gli Lsu e Lpu che in queste ore sperano nel rinnovo di un contratto, che se arriva a mille euro al mese è già considerato da nababbi.
È per questo che, quando li accompagniamo in stazione, li salutiamo con tristezza ma senza rimpianti, sventolando la mano con gli occhi lucidi quando salgono sul treno per tornare a “casa”, quella vera, dove studiano, lavorano e amano. È per questo che ci rassegniamo ad averli con noi solo a Natale, Pasqua e Ferragosto. Che vivano altrove, dove è possibile farlo meglio, dove si può guardare avanti senza inciampare sempre nel passato che non passa mai, quella Magna Grecia che oggi è solo un magna magna e basta.
Che vadano tranquilli, che al posto loro se avessimo 20 o 30 anni faremmo lo stesso. Poi torneranno. E saremo ancora tutti intorno alla tavola imbandita, ultimo scampolo di una Calabria che vale la pena di essere vissuta.
Enrico De Girolamo