«Cominciarono a far morire Falcone nel gennaio del 1988». Mancavano ancora 4 anni al giorno in cui Giovanni Brusca, fedelissimo e feroce killer di Totò Riina, avrebbe premuto il pulsante del telecomando collegato alla mezza tonnellata di tritolo che avrebbe fatto saltare in aria un pezzo di Sicilia, nei pressi di Capaci, su ci transitava in quel momento l’auto di Giovanni Falcone e quelle della sua scorta.

L'auto di Giovanni Falcone

Era il 23 maggio 1992. Ore 17, minuti 57 e 58 secondi, come accertò l’Istituto nazionale di Geofisica che registrò la debole scossa tellurica causata dall’esplosione. Morirono la moglie del magistrato, Francesca Morvillo, e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. E morì lui, Falcone. Ma quello fu solo l’epilogo di carne e sangue di una morte lenta iniziata molto prima: «Il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio 1988». Parole del giudice Paolo Borsellino, ucciso da un’autobomba in Via D’Amelio, a Palermo, appena due mesi dopo.

Strage di Capaci (foto Wikipedia)

Travolto dalla sofferenza e dalla frustrazione, mentre andava incontro all’identico destino, l’amico e collega tolse ogni filtro al proprio dolore, spiegando che nel 1998 Falcone si era candidato a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, figura che oggi potremmo paragonare con molta approssimazione al capo della Procura. «Ma qualche giuda - disse Borsellino nel suo storico j’accuse - si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno, il Csm ci fece questo regalo di preferirgli con motivazioni risibili Antonino Meli. Nonostante lo schiaffo egli avrebbe voluto continuare il lavoro nel quale ci aveva tutti trascinato… Io che stando a Marsala ero a una certa distanza mi resi conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto… morto professionalmente nel silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse… Doveva essere eliminato al più presto, Giovanni Falcone…».

Parole che dopo trentun anni pesano ancora come macigni insopportabili sulla coscienza dell’Italia. Un fardello che, oggi, nella giornata dedicata alla memoria di Falcone e di tutte le vittime di mafia, è ancora più gravoso, perché ci ricorda il debito inestinguibile che abbiamo con lui.

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L’anno prima di essere “bocciato” dal Csm, Falcone aveva chiuso vittorioso il maxiprocesso di Palermo, decretando l’inizio della fine di Cosa nostra. Dal 1986 al 1987 era stato il motore investigativo del pool di magistrati che aveva condotto in porto la più grande e rilevante azione giudiziaria antimafia della storia italiana: 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. E anche se Riina, Bagarella e Provenzano erano stati condannati in contumacia e restavano latitanti, Falcone era riuscito fare ciò che nessun altro aveva mai osato prima: far certificare in una sentenza storica che la mafia esiste, un assioma giuridico che oggi ci appare scontato ma allora non lo era affatto.

Fu l’inizio della fine, appunto, ma il suo sangue e quello di molti altri doveva ancora scorrere. A cominciare da quello di Borsellino, saltato in aria alle 16 e 58 del 19 luglio 1992, insieme ai cinque agenti che lo proteggevano - Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Trainamentre -, mentre era andato a far vista alla madre e alla sorella che abitavano in Via D’Amelio. L’assassinio dei due magistrati amici fu un uno-due micidiale per lo Stato e la società italiana, che però condusse la mafia corleonese, uscita vincente dalla guerra con le famiglie di Palermo agli inizi degli anni ‘80, verso il declino definitivo.

Oggi la criminalità organizzata siciliana non ha più le caratteristiche di dominanza ostentate un tempo, è molto più carsica, sotterranea, scaltra. E sopravvive soprattutto in ambiti che nulla hanno a che vedere con la mafia delle origini, agricola e al servizio dei latifondisti.

Perché la lotta alla mafia, sia chiaro, è tutt’altro che vinta. Il primato di organizzazione criminale più pericolosa e capillare è passato alla ‘ndrangheta calabrese, che è oggi la mafia più diffusa al mondo, presente in tutti cinque continenti.

Ecco perché l’esempio e il messaggio di Falcone, Borsellino e di tutti gli altri caduti di questa guerra, non passa e non viene cristallizzato nella storia del Paese. Perché la mafia, purtroppo, non è ancora “storia”.

Anche le teche che contengono le auto coinvolte nella strage di Capaci ancora esprimono, a più di trenta anni di distanza, tutta la drammatica attualità di un istante che non passa. È questa la sensazione che trasmette l’auto sulla quale viaggiava Falcone, una Croma bianca, custodita in una grande scatola di vetro nella Scuola di formazione e aggiornamento del personale del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria di Roma, struttura intitolata allo stesso magistrato. Sconquassata dall’esplosione, con le portiere divelte e il cofano accartocciato sul motore ormai scoperto nella nudità della sua morte meccanica. 

Ma c’è un'altra auto che erroneamente viene di solito indicata come “l’auto di Falcone”. È un grumo di lamiere accartocciato su ste stesso, come una palla compatta di rottami dalla quale spunta in maniera grottesca una ruota intatta. Tutto il resto è supplizio senza forma, senza più spazio vitale, senza tempo.

L'auto della scorta di Giovanni Falcone

Su quest’auto viaggiava una parte della scorta del giudice, e oggi questo rottame modellato come una scultura dalla violenza della mafia è il testimone itinerante che mostra ciò che è stato. In occasione del memorial day, quel coagulo di acciaio è stato posto nei pressi dell’Altare della patria, a ribadire che non c’è giustizia, non c’è libertà, non c’è democrazia fin quando la mafia - che si chiami anche ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita - potrà minacciare e compiere un tale scempio.

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