Una condanna e due assoluzioni. Questa la sentenza del Tribunale collegiale di Vibo Valentia (presidente il giudice Tiziana Macrì) nel processo nato dall’operazione denominata “Maqlub” (che in arabo significa ribaltamento), scattata nel luglio del 2019 con il coordinamento della Dda di Catanzaro e condotta sul “campo” dai carabinieri della Compagnia di Tropea. Per Antonio Mancuso, di 83 anni, di Limbadi ma residente a Nicotera, la condanna ammonta a 10 anni e 6 mesi di reclusione (l’accusa aveva chiesto 12 anni e 6 mesi). Assolti per non aver commesso il fatto Andrea Campisi, di 38 anni, di Nicotera (per lui l’accusa aveva chiesto 9 anni e 6 mesi di reclusione, più settemila euro di multa) e Francesco D’Ambrosio, di 41 anni, di Nicotera (per lui era stata chiesta la condanna 3 anni e 4 mesi). Andrea Campisi era difeso dall’avvocato Giuseppe Grande, mentre Francesco D’Ambrosio erassistito dagliavvocati Sabatino e Cosentino. Antonio Mancuso è stato anche condannato all’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici ed anche al risarcimento del danno cagionato alle costituite parti civili Carmine Zappia, Giulia Zappia, Antonio Zappia, la Provincia di Vibo e la Regione Calabria. Gli Zappia si erano costituiti parti civili con l’avvocato Giovanna Fronte. Antonio Mancuso era invece difeso dall’avvocato Giuseppe Di Renzo.

Le accuse della Dda

Del reato di estorsione aggravata dalle modalità mafiose erano accusati Alfonso Cicerone e Giuseppe Cicerone (che hanno scelto il rito abbreviato, con Cicerone condannato a 9 anni e 8 mesi), quali concorrenti e cointeressati dal boss Antonio Mancuso. I due sarebbero stati incaricati di tenere direttamente i rapporti con la vittima, l’imprenditore di Nicotera Carmine Zappia, mentre Rocco D’Amico (condannato a 4 anni e 8 mesi in abbreviato), Salvatore Gurzì (assolto con l’abbreviato) e Andrea Campisi (ora assolto da ogni accusa) erano accusati di essere gli esecutori materiali dell’estorsione coadiuvando Alfonso Cicerone e Antonio Mancuso, quest’ultimo indicato quale mandante e beneficiario della condotta delittuosa. Proprio Antonio Mancuso, secondo l’accusa, avrebbe impartito le direttive per l’estorsione convocando la vittima alla sua presenza e interloquendo direttamente con la stessa, in più occasioni ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, dapprima asserendo di aver rilevato il residuo credito di centomila euro vantato da Maria Giacco nei confronti della vittima, Carmine Zappia, in relazione alla cessione nel maggio del 2011 di un immobile sito in via Filippella di Nicotera, quindi riferendo di agire per conto di terze persone non meglio specificate, mediante violenza e minaccia derivante “dall’appartenenza dei Cicerone e di Antonio Mancuso alla famiglia di ‘ndrangheta dei Mancuso di Limbadi e dal carisma mafioso di Mancuso Antonio, connesso al suo ruolo di riconosciuto referente di tale famiglia”.

La vicenda

Dal gennaio al marzo 2018, gli imputati erano accusati di aver indotto la vittima ad accettare di estinguere il residuo debito versando 15mila euro ogni tre mesi (importo che effettivamente Carmine Zappia versava nel gennaio 2018), somma poi ridotta a cinquemila euro ogni tre mesi (importo che la vittima versava ad Antonio Mancuso nel marzo dello scorso anno tramite Giuseppe Cicerone). Nell’ottobre del 2018, Alfonso Cicerone, alla presenza di Antonio Mancuso, avrebbe urlato con tono minaccioso nei confronti della vittima, intimandogli di consegnare la somma dovuta a qualsiasi costo e di non far fare brutta figura allo zio Antonio Mancuso. Nei giorni successivi, sia Alfonso Cicerone, sia Antonio Mancuso avrebbero quindi intimato alla vittima di togliere tutti i mobili dal suo negozio di arredamenti entro due giorni, con frasi del tipo: “Non aprire la serranda che mi incazzo…o porti i soldi entro sabato o lunedì non aprire”, chiedendogli poi di prendere i soldi a strozzo dallo stesso Antonio Mancuso, così ottenendo la consegna in contanti di ulteriori cinquemila euro, somma versata dalla parte offesa nel dicembre del 2019. Giuseppe Cicerone avrebbe poi riferito alla vittima che “era stato deciso di pestarlo” e che ciò non avveniva solo per il suo personale parere negativo. Nel maggio 2019, Alfonso Cicerone è accusato di aver ancora minacciato la vittima, mentre Antonio Mancuso avrebbe riferito alla vittima che in cinquemila euro versati mensilmente erano da considerarsi quale affitto dei locali (in realtà già di proprietà dell’imprenditore) e che andavano a decurtare il residuo debito complessivo.

Antonio Mancuso, alla presenza del cognato Giuseppe Cicerone, del nipote Alfonso Cicerone, e di Salvatore Comerci, era poi accusato di aver imposto alla vittima di affiggere alla propria attività di arredamenti il cartello “Vendesi”. Alfonso Cicerone, inoltre, in vista della scadenza del giugno 2019, avrebbe riferito alla vittima che Antonio Mancuso era molto arrabbiato per la sua posizione debitoria e che da quel momento in avanti avrebbe assunto un atteggiamento diverso, stabilendo che le comunicazioni relative al pagamento sarebbero avvenute per il tramite di Rocco D’Amico. Sempre nel giugno 2019, Antonio Mancuso avrebbe preteso dalla vittima il pagamento di ulteriori 11.500 euro con nuove minacce di Alfonso Cicerone alla vittima andate avanti sino a fine mese insistendo nelle richieste di denaro già avanzate, anzi pretendendo il 2 luglio 2019 ulteriori 1.500 euro di interessi per il mancato tempestivo pagamento della somma di undicimila e 500 euro. Il 5 luglio 2019, poi, altra richiesta di denaro per ulteriori mille euro di interessi in caso di mancato tempestivo pagamento della somma di tredicimila euro, intimando ancora una volta alla vittima di non aprire alcuna della sue attività commerciali qualora non avesse ottemperato al pagamento.

Antonio Mancuso il 6 luglio 2019, alla presenza e con l’intervento di Alfonso Cicerone, avrebbe poi rappresentato alla vittima che, in caso di ulteriori ritardi nei pagamenti, avrebbe dovuto cedere a lui (o a terzi interessati all’acquisto, da individuare) circa cento metri quadri del negozio di arredamenti gestito dal commerciante (ovvero i locali corrispondenti alle ultime due delle cinque saracinesche del negozio, per un valore di circa 70mila euro), senza alcuna riduzione del residuo debito dovuto a seguito del paventato impossessamento di tali locali. Mancuso e Alfonso Cicerone, non contenti, avrebbero inoltre prospettato alla vittima anche la possibilità di cedere loro l’intero negozio di arredamenti o la tabaccheria da lui gestita. I reati di usura ed estorsione sono aggravati dalle modalità mafiose. 

La tentata estorsione agli ambulanti

Francesco D’Ambrosio, Alfonso Cicerone e Rocco D’Amico, erano quindi accusati di altra tentata estorsione per aver cercato l’1 giugno 2019 di farsi consegnare dagli ambulanti senegalesi, che stazionavano in piazza Garibaldi a Nicotera, 50 euro ciascuno per l’occupazione dello spazio pubblico dinanzi al bar di Cicerone. Una pretesa non andata a buon fine. Francesco D’Ambrosio è stato però oggi assolto con formula ampia.