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Tutti nominati dal Tribunale. Tutti messi lì per fare gli interessi della collettività. Eppure, tutti indagati a vario titolo per omessa vigilanza, falso ideologico e mancata denuncia nell’ambito di un’ipotesi di bancarotta fraudolenta.
Ha risvolti dirompenti il provvedimento di sequestro preventivo per 2milioni e 209mila euro emesso dal giudice per le indagini preliminari Gabriella Lupoli nei confronti della Vincenzo Restuccia Costruzioni Srl, che nel novembre del 2013 presentò il piano per un concordato preventivo, cioè la procedura concorsuale alla quale un’impresa in stato di crisi può ricorrere per evitare il fallimento e tentare la risalita.
Solo che in questo caso, secondo le tesi del Pm, accolte dal Gip che ha disposto il sequestro, la risalita era truccata.
Gli indagati
Insieme a Restuccia, l’imprenditore di Rombiolo recentemente scomparso, sotto accusa finiscono i cinque tecnici - commercialisti e avvocati - incaricati di coadiuvare i giudici fallimentari nelle procedure di accertamento dei debiti e dei crediti dell’impresa edile, consentendo così di valutare la fattibilità del piano concordatario.
Tra gli indagati, a fare scalpore è soprattutto il nome di uno dei più noti commercialisti italiani, Claudio Ferrario, nominato commissario giudiziale della Restuccia Costruzioni nell’estate del 2014. Il professionista, oltre ad essere uno dei due curatori fallimentari del 501 Hotel, e anche e soprattutto uno dei tre commissari liquidatori della Banca Popolare di Vicenza, l’istituto di Gianni Zonin (il re del vino Made in Italy), travolto da un devastante crac che ha mandato sul lastrico migliaia di risparmiatori ed è già costato ai contribuenti oltre 5 miliardi di euro, quanti ne sono serviti a luglio per il decreto legge che ha consentito di tenere aperti gli sportelli ed evitare il panico tra i correntisti.
Le ipotesi dei magistrati
Ferrario, insieme all’altro professionista nominato dal Tribunale, Fabio Caridi, espresse parere favorevole sul concordato Restuccia e, sulla base delle loro analisi presumibilmente viziate, il Tribunale di Vibo diede il via libera e nominò il collegio dei liquidatori giudiziali, formato da Maria Rosaria Potenza e da Giuseppe Chiarelli. Anche loro risultano indagati, alla stregua dal commercialista Vittorio Iritano, il primo ad entrare in scena in questa intricata vicenda: sua la firma, infatti, in calce alla relazione attestante la veridicità dei dati aziendali presentata nelle fasi inziali della procedura concordataria.
Secondo il Gip, i cinque professionisti avrebbero messo in atto «una condotta complessiva sinergicamente e strategicamente volta a creare ed avvalorare l’apparenza di un minor fabbisogno concordatario e di una maggiore consistenza dell’attivo, ergo ad avallare ingannevolmente la sostenibilità e fattibilità del piano della Restuccia Costruzioni Srl».
L'accusa di bancarotta fraudolenta
Ma c’è di più. Per raggiungere questo scopo, avrebbero colpevolmente coperto un sistema a vasi comunicanti che ha portato al fallimento di un’azienda “figlia” del gruppo Restuccia, a tutto vantaggio della principale, cioè la Restuccia Costruzioni Srl, che si sarebbe appropriata di un consistente credito formalmente non suo.
Da qui l’accusa di bancarotta fraudolenta nei confronti del noto costruttore calabrese. Una vicenda che pesa come un macigno su uno dei professionisti italiani più esposti, Ferrario appunto, incaricato nel giugno 2017 dalla Banca d’Italia di sbrogliare parte della matassa della Banca Popolare di Vicenza, che ha lasciato con un pugno di mosche 120mila piccoli azionisti ed è al centro - insieme a Veneto Banca - di uno dei più clamorosi default del sistema creditizio italiano.
L'appalto per la condotta sul Menta
Tornando alle vicende vibonesi, per comprendere la richiesta di sequestro preventivo di 2milioni e 209mila euro fatta dal Pm e accolta dal Gip, bisogna fare un salto indietro di 10 anni.
È il 2008 quando l’imprenditore di Rombiolo, attraverso un’Ati formata dalla Restuccia Costruzioni Srl e dalla Valori Scarl, si aggiudica l’appalto per la costruzione di un’importante condotta idrica sulla diga del Menta, in provincia di Reggio Calabria. Con l’unico scopo di realizzare materialmente i lavori, si legge nel decreto di sequestro, viene costituita una società consortile, la Torrente Menta Scarl, alla quale viene affidata dall’Ati la costruzione dell’opera. A prescindere dalla compagine societaria, però, secondo i magistrati, la Torrente Menta risulta sin dall’inizio sempre amministrata e controllata dall’imprenditore vibonese.
Scatole cinesi e fallimenti pilotati
L’impresa costituita ad hoc realizza i lavori senza, però, incassare mai il compenso, cioè quei 2milioni e 209mila euro oggetto del decreto di sequestro. Il motivo è semplice: visto che si tratta di imprese organizzate come scatole cinesi, sarebbe come se Restuccia dovesse pagare se stesso, e non lo fa, anche perché quel credito milionario vantato nei confronti della Sorical gli serve per rendere fattibile il concordato preventivo dell’azienda madre, che nel frattempo è stato richiesto. Il mancato incasso, però, porta al fallimento nel marzo del 2015 della Torrente Menta Scarl.
In altre parole, intorno a quei 2 milioni e 209mila euro si sono giocati i destini di due aziende: una che non doveva fallire e una che, al contrario, non poteva essere salvata.
Un gioco delle tre carte che secondo i magistrati è stato reso possibile soltanto grazie alle omissioni dei tecnici nominati dal Tribunale, che non avrebbero impedito un disegno criminoso poi sfociato nella bancarotta fraudolenta della Torrente Menta.
Enrico De Girolamo