Da quel che è emerso nel processo a Salerno l’ex procuratore aggiunto di Catanzaro non fu l’unico ad occuparsi del procedimento penale per il quale finì poi sotto indagine. E anche gli altri suoi colleghi ritenevano che non vi fossero elementi indiziari forti nei confronti dell’allora parlamentare del Pd (ASCOLTA L'AUDIO)
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È il 13 dicembre del 2019 quando la procura di Salerno ordina alla polizia giudiziaria di perquisire gli uffici e l’abitazione del magistrato di Cosenza, Vincenzo Luberto, all’epoca dei fatti procuratore aggiunto di Catanzaro. Parliamo di un pm antimafia che ha dedicato la sua vita alla lotta contro la ‘ndrangheta, ottenendo pesanti condanne contro le cosche della Sibaritide. Clan sanguinari che per anni hanno soffocato l’economia della piana di Sibari, imponendo la loro legge.
Lo Stato, invece, dal 2005 in poi decise di dichiarare “guerra” ai sodalizi criminali dei Forastefano e Abbruzzese di Cassano all’Jonio, senza dimenticare i gruppi operanti tra Corigliano e Rossano. Territori in cui la mafia calabrese controllava a menadito ogni zona, avendo (tra le altre cose) il predominio del traffico di droga. Situazioni che, grazie ai collaboratori di giustizia, sono venute a galla nelle più svariate operazioni antimafia coordinate proprio da Vincenzo Luberto, il quale fino al 2015, anno in cui il Plenum del Csm lo promosse quale numero due della Dda di Catanzaro, era uno dei tanti pm in trincea che qualcuno addirittura voleva far saltare in aria (fatti rilevati in una delle intercettazioni dell’operazione “Katrina”) come fece Cosa Nostra con Falcone e Borsellino.
Luberto, un pm “ostile” alla ‘ndrangheta
Luberto non ha affatto un carattere facile, al limite dell’insopportabile, ma non ha mai voltato le spalle alla giustizia. Non solo in provincia di Cosenza, ma anche (e soprattutto) nell’area cirotana, di cui conosce tutti gli equilibri, essendo notoriamente la “Mamma” criminale della fascia jonica cosentina. Si deve a lui, e a quanti hanno lavorato a quell’indagine, la condanna di Cosimo Donato e Faustino Campilongo, partecipi della strage di Cassano all’Ionio, in cui furono uccisi nel gennaio del 2014 Giuseppe Iannicelli senior, il piccolo Cocò Campolongo e la fidanzata marocchina del nonno del bambino di quasi 4 anni. Un triplice delitto che richiamò l’attenzione di Papa Francesco, sceso in provincia di Cosenza, per chiedere il pentimento dei killer. I tre gradi di giudizio, poi, hanno confermato la bontà di quell’inchiesta e, in particolar modo, la tenuta processuale condotta da Luberto davanti alla Corte d’Assise di Cosenza, tra mille difficoltà, come l’aver toccato con mano la reticenza di alcuni testimoni chiave della vicenda giudiziaria. Momenti turbolenti tra accusa e difesa che facevano venir fuori l’atteggiamento scorbutico di un pubblico ministero consapevole del ruolo fondamentale che assumeva in quel processo.
L’indagine su Ferdinando Aiello: cosa è emerso a Salerno
Allora vien da chiedersi se davvero Luberto potesse favorire una persona, e in questo caso parliamo di un amico, nell’ambito di un’indagine contro una presunta associazione mafiosa, su cui lavoravano non uno, ma altri tre pubblici ministeri, i quali avevano convenuto che non vi fossero elementi indiziari così forti da iscrivere nel registro degli indagati Ferdinando Aiello che, dopo quattro anni, passerà una “settimana bianca” con Luberto (da qui l’ipotesi, infondata, di corruzione).
Il Megalotto della 106 Jonica e l’imprenditore in “odor di mafia”
La verità è emersa durante il processo tenutosi a Salerno davanti al gup Carla Di Filippo. Gli atti a disposizione del tribunale hanno evidenziato in realtà che Luberto predispose un Ocp (osservazione controllo pedinamento) nei confronti di Aiello, il quale incontrava per motivi politici uno dei segretari dem della Sibaritide. Quel presunto “comitato d’affari”, secondo l’ipotesi scandita in prima battuta dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Cosenza, avrebbe avuto interesse a partecipare alla realizzazione del Megalotto per il completamento della Statale 106 Jonica, in uno dei tratti compresi tra l’Alto Jonio cosentino e la piana di Sibari. Accertamenti che nacquero nel momento in cui i militari dell’Arma individuarono un imprenditore edile operante tra Altomonte e Corigliano, sfiorato in passato da operazioni contro la ‘ndrangheta. Accuse dunque non supportate da una reale valenza indiziaria che, in quel caso, avrebbe fatto scattare sicuramente un’attività investigativa imponente sia contro Aiello che nei riguardi di altri politici, boss e imprenditori locali. Ma tutto ciò non è avvenuto e le valutazioni in senso contrario rispetto all’ipotesi di reato, all’epoca, vennero fatte non solo da Luberto ma pure dagli altri tre colleghi, due dei quali ancora in servizio a Catanzaro, sotto il coordinamento di Nicola Gratteri.
Luberto e la conoscenza approfondita delle cosche cosentine
Sempre nel corso delle udienze svoltesi a Salerno, sarebbe emerso che Luberto di quel fascicolo se ne occupò meno rispetto agli altri tre pm, impegnati come lui ad effettuare indagini nell’area territoriale Jonica, dove l’ex procuratore aggiunto di Catanzaro, era senza dubbio il più preparato, viste le conoscenze investigative decennali di soggetti che in apparenza sembravano fuori da cerchie familiari. Basti pensare al fatto che in alcuni casi i cognomi Abbruzzese, Abruzzese e Bruzzese, certificano un legame di sangue di primo grado.
In parole povere, Luberto, fin quando si è occupato di quel procedimento penale, ha fatto tutto tranne che aiutare Aiello che, qualora fosse stato intercettato, la richiesta sarebbe dovuta approdare alla Camera dei Deputati, visto lo status di parlamentare, con la conoscenza diretta dell’esistenza di un’indagine nei suoi riguardi. Un modo discutibile di operare che, tuttavia, non è sfociato in una condotta illecita, come ha stabilito il tribunale di Salerno. Chi ripagherà Luberto di quanto successo? Ai posteri l’ardua sentenza.