Per accedere abusivamente alle banche dati in possesso alle forze dell’ordine, l’ex luogotenente della Guardia di finanza, Ercole D’Alessandro, spendeva spesso il nome dell’allora procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. D’Alessandro, all’epoca in servizio presso il Nucleo di polizia economico finanziario, Gico – sezione Goa di Catanzaro, faceva leva su esigenze di consultazione rispondenti all’interesse del “dottore”. In realtà l’interesse era privato e personale.
L’ex finanziere è stato condannato dal Tribunale di Catanzaro a sei anni e otto mesi di reclusione nell’ambito del procedimento “Basso Profilo”. Assolto dall’associazione per delinquere semplice aggravata dal metodo mafioso, i giudici lo hanno ritenuto colpevole di due casi di rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio e dieci casi di accesso abusivo a un sistema informatico. Per questi accessi abusivi il suo paravento è stato spesso il procuratore Gratteri.

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Nel corso del processo si è appreso dalle deposizioni che «si era constatato che in diverse occasioni Ercole D’Alessandro – è scritto in sentenza – aveva fatto ricorso ai componenti della propria pattuglia, della quale il predetto era a capo, al fine di eseguire una serie di consultazioni delle banche dati in uso ai predetti in relazione ad argomenti estranei al servizio…». D’Alessandro faceva leva anche sulle esigenze di consultazione «rispondenti all’interesse del “dottore”, riferendosi al Procuratore di Catanzaro, o pure della Dea, il dipartimento antidroga americano, con il quale vantava una collaborazione ultradecennale. Era noto ai colleghi, ai componenti della pattuglia, che siffatto rapporto di collaborazione sussisteva sia con il Procuratore, sia con gli agenti della Dea; sfruttando la circostanza, dunque, il D’Alessandro chiedeva ai colleghi di effettuare accessi alle banche dati. I collaboratori dell’odierno imputato non nutrivano alcun dubbio circa l’eventualità che gli interessi sottesi a dette richieste potessero riguardare situazioni private, ritenendo trattarsi di esigenze di servizio. Sono emersi, dunque, plurimi accessi ai centri di elaborazione delle banche dati accessibili dalle postazioni di servizio, in particolare presso il Ministero degli Interni per quanto riguarda la banca dati Sdi ovvero i precedenti di polizia, e presso il Comando generale della Guardia di Finanza per quanto attiene alla banca dati dell’Agenzia tributaria».

Così doveva riferire a Gratteri, per esempio, nell’occasione in cui ha raccolto informazioni anche spinto dalla sua compagna, la gastroenterologa Odeta Hasaj, anche lei condannata a 4 anni e due mesi per sei casi di accesso abusivo a un sistema informatico. Verifiche su numeri di targa, notizie di carattere fiscale e patrimoniale, interrogazioni alla banca dati dell'Agenzia delle entrate, informazioni di polizia. Di tutto avrebbe chiesto alle banche dati il finanziere, per suo interesse personale o per interesse di Odeta Hasaj.
In un caso, per esempio, doveva verificare le generalità e le eventuali possidenze immobiliari di una persona, specificando che «i beni erano di interesse “del dottore”; raccomandava di stampare anche le consultazioni effettuate, perché, poi, doveva consegnarle al dottore».

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Basso profilo, le informazioni su Gallo rivelate all’indagato

Tra i reti per i quali è stato condannato D’Alessandro vi è anche quello di avere rivelato particolari su una inchiesta a suo carico ad Antonio Gallo, individuato come imprenditore di riferimento dei clan del Crotonese, condannato a 30 anni di reclusione e attualmente detenuto in regime di 41bis. I giudici hanno escluso l’aggravante mafiosa e hanno assolto i presunti correi di D’Alessandro e Gallo ovvero l’ex consigliere comunale di Catanzaro Tommaso Brutto, il figlio Saverio Brutto, all’epoca assessore nel Comune di Simeri Crichi e il luogotenente Roberto Mari. Secondo l’accusa, Gallo, i due Brutto e D’Alessandro avevano interesse ad aprire un esercizio commerciale in Albania. Per questa ragione, essendo Gallo implicato nell’operazione della Dda di Catanzaro denominata Borderland, contro il clan Trapasso, c’era interesse a conoscere la posizione di Gallo in questa inchiesta. D’Alessandro avrebbe appreso su Gallo una serie di informazioni ancora coperte da segreto e lo avrebbe informato.
Secondo i giudici è provato che D’Alessandro ha informato Gallo «di un fatto che egli, in quel momento, non conosceva e che non aveva diritto di conoscere».

«Io volevo coltivarlo a Gallo»

Nel corso del processo il finanziere si è difeso dicendo che i suoi incontri con Gallo avevano la finalità di «reperire da lui informazioni in ordine all’ambiente malavitoso dei villaggi turistici».
«… io volevo coltivarlo a Gallo», dice D’Alessandro in udienza.
Ma il Tribunale la vede diversamente: «In realtà, dal tenore delle conversazioni intercettate, risulta che D’Alessandro ricambiasse il favore, fornendo al Gallo informazioni segrete sull’esistenza di indagini a suo carico e lo facesse nella piena consapevolezza in quel momento che Gallo fosse indagato per fatti di cointeressenza mafiosa». Per quanto riguarda Tommaso e Saverio Brutto – che secondo l’accusa erano interessati ad avere informazioni sul loro “socio” – «non risulta provato alcun contegno dei medesimi volto ad arrecare un contributo apprezzabile al compimento del reato».

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Così i Brutto presentavano Gallo: «Un ragazzo pulito»

Dalle indagini è emerso che sono stati i Brutto a presentare Gallo e D’Alessandro «al fine di coinvolgerli nella realizzazione del progetto imprenditoriale in Albania, in quanto il primo avrebbe dovuto finanziare l’attività ed il secondo, procacciare i contatti sul territorio per far conoscere l’impresa e svilupparne la clientela».
Più volte i Brutto hanno parlato a D’Alessandro di Gallo definendolo «un ragazzo pulito, al fine di rassicurarlo sull’assenza di rischi dell’affare che gli stava proponendo».
I Brutto aggiungono altri particolari: «Avendo ben chiaro che l’amico luogotenente non avrebbe fatto accordi con soggetti vicini ad ambienti malavitosi, per rimarcare il concetto, nella conversazione, Brutto racconta che Gallo è sottoposto a degli accertamenti della Guardia di finanza per questioni di natura fiscale e non già penale e che, nonostante non siano emersi elementi a suo carico, tuttavia si sente perseguitato in particolare da Roberto Mari».
«Questo dice che gli rompe il c***o… ma dice che però lo perseguita eh... ma non a livello… a livello fiscale voglio dire… a livello... ancora non gli hanno trovato niente…», dice Tommaso Brutto rivolgendosi a Gallo.

Le conversazioni «non significative»

La conversazione, però, scrivono i giudici: «non può essere in alcun modo ritenuta significativa rispetto alle rivelazioni contestate, non solo perché risalente ad un anno prima delle stesse, ma soprattutto perché non ne rivela alcuna connessione con il contegno dei Brutto. Ed, invero, il riferimento a Mari è chiaramente funzionale al Brutto per supportare il giudizio positivo espresso sul Gallo al fine di convincere l’amico finanziere a fidarsi ed a partecipare al progetto albanese. Non risulta alcuna differente finalità del medesimo ed, infatti, egli non avanza alcuna richiesta al D’Alessandro con l’intento di approfondire eventuali coinvolgimenti di Gallo in affari illeciti né si propone di farli incontrare per stabilire un canale informativo tra i due. L’argomento è, infatti, liquidato dal Brutto con la manifestata convinzione che quando D’Alessandro conoscerà Gallo personalmente, converrà che erano solo dicerie infondate».
Anche per il concorso di Mari non vi sono, dice il collegio, «elementi di prova».
Dunque D’Alessandro avrebbe, motu proprio, cercato informazioni su Gallo scoprendo le indagini a suo carico in una inchiesta della Dda e avrebbe rivelato tutto a Gallo, sottacendo ogni informazione agli altri due soci.
«L’ipotesi accusatoria – è scritto nella sentenza – è basata esclusivamente sul dichiarato di Ercole D’Alessandro , intercettato nella conversazione con Gallo del 23 marzo 2018 che svela all’interlocutore che sarebbe proprio Mari la fonte delle sue informazioni riservate».