Un «lavoro complicato» lo definiscono gli operai che hanno preparato tutto e piazzato i 400 chili di esplosivo per far collassare su se stesso palazzo Mangeruca. Undici anni per arrivare all'abbattimento, ma non è l'esempio peggiore in Calabria
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«Era un lavoro complicato, il palazzo era solido, abbiamo dovuto rimuovere lastre di amianto, e le condizioni a causa della posizione della struttura non erano delle migliori. Ma siamo preparati ed eravamo certi che tutto sarebbe andato per il verso giusto». Gli operai demolitori, che per giorni hanno preparato la scena e piazzato i 400 kg di esplosivo nei punti giusti per fare collassare su se stesso palazzo Mangeruca, sono i più felici di tutti.
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Il palazzone della vergogna è venuto giù come un castello di carte da pochi minuti e mentre il parterre di autorità arrivato a Torre di Melissa per l’abbattimento hollywoodiano comincia a smobilitare, loro si abbracciano soddisfatti. Ora, al posto di quella oscenità di cemento armato alta sei piani ed estesa 6 mila metri quadri, costruita ai margini della 106 (e, almeno parzialmente, sanata negli anni), tra filari di vigneti e il mare, il Comune, con fondi regionali, ci costruirà un piazzale attrezzato per la sosta dei camper. Un’ottima notizia per un paese a forte vocazione turistica come Melissa (circa 1500 i posti letto disponibili in paese, solo a stringere il numero alle strutture alberghiere) e che restituisce alla comunità un paesaggio preso in ostaggio dal potere mafioso e restituito alla sua cruda bellezza.
Almeno in parte, visto che nella stessa Melissa (come su tutta la costa jonica) gli ecomostri in cemento armato, mattoni e pilastri al vento, si contano a grappoli. Da un “nonfinito” distante 200 metri dal cratere dell’esplosione si è affacciata buona parte della stampa (locale e nazionale) a seguito dell’evento per una visione dall’alto. Lo stesso nonfinito (quei mattacchioni dello Statale Jonico lo chiamerebbero “patrimonio artistico del neo-calabro”), davanti al quale il presidente Occhiuto, il Comandante generale dell’arma Luzi, il ministro Ciriani e il vice ministro Sisto hanno atteso il botto che metteva fine ad una pagina amarissima della storia recente calabrese.
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Ci sono voluti undici anni per buttare giù il palazzo costruito contro ogni logica agli inizi degli anni ’80 da Costantino Mangeruca – “il falegname” arrivato da Africo via Milano e sospettato di essere elemento di congiunzione tra le cosche del cirotano e quelle dello Jonio reggino – e acquisito a patrimonio dello Stato nel 2012. Quindici se si prende come data di partenza, il sequestro del patrimonio dell’ormai defunto Mangeruca (39 immobili dal valore di 30 milioni di euro) che risale al 2007. Un lasso di tempo enorme, ma che non rappresenta un record in una Regione che non ha ancora capito come riassegnare alla comunità i patrimoni sottratti alle consorterie criminali e che, come nei casi recenti di Platì e Africo, negli stessi beni confiscati ci ha dovuto sistemare una caserma dei carabinieri, perché nessuno, nemmeno quando il bene stesso era stato assegnato alla chiesa, era riuscito a stabilirsi.
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Peggio di Torre Melissa infatti si è riusciti a fare nel fazzoletto di spiaggia, poco più di 500 metri, di competenza del comune di Stilo, nel Reggino. Qui di anni, prima che le ruspe entrassero in funzione, ne erano passati addirittura 28. Le villette riconducibili alla cosca Ruga (nate per essere chioschetti amovibili per vendere gelati, e trasformatisi in parallelepipedi di cemento armato con le fondamenta sulla spiaggia) furono sequestrate addirittura nel 1984, ma si dovette aspettare fino al 2012 quando, con i carabinieri costretti a presidiare per giorni il cantiere, furono tirate giù dall’intervento delle ruspe.