La vergogna di portare il cognome Mancuso, il terrore ad accusare il potente clan di Limbadi, l’esasperazione per situazioni divenute insostenibili, ma anche la forza di dire basta ad anni di violenze, umiliazioni e privazioni di ogni genere. Ewelina Pytlarz, ex moglie del 47enne Domenico Mancuso, ha iniziato ieri pomeriggio a raccontare nel maxiprocesso Rinascita Scott il calvario al quale è stata sottoposta a Limbadi dopo il matrimonio.

Testimone di giustizia dal 2013, la donna di origine polacca ha risposto alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, fermandosi più volte quando c’era da fare un nome in particolare: quello di Luigi Mancuso, il principale imputato del maxiprocesso che si sta svolgendo nell’aula bunker di Lamezia Terme dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia.

La donna ha spiegato di aver conosciuto il marito nel 2004 in campagna a Limbadi e di essersi sposata l’anno successivo. “Domenico Mancuso è il figlio di Salvatore Mancuso e Giulia Tripodi ed è fratello di Giuseppe Mancuso, detto Pino Bandera, Pantaleone Mancuso detto Scarpuni, e Francesco Mancuso. Il mio ex marito mi picchiava, mi teneva chiusa in casa, mi insultava e diceva che mi avrebbe tagliato la testa. Lavoravo per diverse ore al giorno nel panificio e venivo maltrattata in continuazione. Sono stata picchiata da mio marito anche in presenza di mia mamma”.

Il 6 dicembre del 2013 la fuga da Limbadi a Gioia Tauro portandosi con sé la figlia minorenne. Quindi le prime denunce ai poliziotti del commissariato di Gioia Tauro. Trova anche lavoro in un albergo a Gioia Tauro Ewelina, ma appena il proprietario viene a conoscenza dei problemi che ha con la famiglia Mancuso allontana la donna che si ritrova così da sola e senza soldi.

Con sé solo la bambina. “Ho conosciuto Luigi Mancuso, zio di mio marito, quando è uscito dal carcere. Mi hanno obbligata ad andare a casa sua e ho dovuto portare pure la bambina. Ho avuto sempre paura, ero terrorizzata dal cognome Mancuso. Sara, la moglie di Lugi Mancuso ricordo che mi prese in disparte e mi chiese se davvero era mia intenzione andare via di casa. Io risposi che ero disperata – ha raccontato la Pytlarz – e la moglie di Luigi Mancuso mi disse di non farlo altrimenti sarebbe intervenuto suo marito a difendere il nipote Domenico Mancuso, cioè mio marito. Luigi Mancuso disse invece che dovevo sottomettermi ed ascoltare quello che diceva suo nipote Domenico, altrimenti avrei passato dei guai”.

Dopo l’allontanamento da Limbadi, Ewelina Pytlarz viene quindi raggiunta a Gioia Tauro sia dal marito che da altri familiari. “Volevano che firmassi carte false per portarmi via mia figlia, dicevano che erano in grado di corrompere giudici ed avvocati per vedersi assegnata la bambina in caso di separazione. Anche mio cognato Pantaleone Mancuso, detto Scarpuni, mi disse che mia figlia doveva crescere a Limbadi perché è una Mancuso. Attraverso la moglie di Francesco Mancuso, mi hanno fatto sapere che Scarpuni era disposto a darmi duemila euro al mese pur di far ritornare la bambina a Limbadi. Per lei la bambina era un oggetto, volevano portarmela via ma per fortuna l’ho tenuta sempre con me e l’ho salvata”.

Quindi tutto il peso di portare un cognome che la bambina non sente suo. “Mia figlia oggi ha 15 anni, legge e capisce. Ha letto della famiglia Mancuso, dello zio Luigi e mi ha detto che si vergogna del cognome che porta e che lo vuole cambiare. Ha tanta paura anche lei”.

Paura che si è manifestata ieri in aula quando Ewelina Pytlarz si è bloccata più volte quando c’era da fare il nome di Luigi Mancuso messo invece a verbale. “Ma non è che mi sentono anche i Mancuso in questo momento? – ha chiesto la testimone di giustizia rivolgendosi al pm ed al Tribunale”. La donna è stata invitata più volte a farsi coraggio ed a dire la verità ed alla fine il nome tanto temuto è stato pronunciato nel corso della deposizione: “I familiari di mio marito mi hanno detto che mi ammazzano, sono venuti Roberto Cuturello ed il figlio a dirmi che lo zio di mio marito, Luigi Mancuso, mi avrebbe fatta uccidere. Io sono terrorizzata. Una volta è venuto a Gioia Tauro anche mio marito insieme all’avvocato Stilo”.

Una deposizione, quella della testimone di giustizia che riprenderà il 12 novembre. Prima del rinvio, però, la descrizione della casa in cui viveva insieme ai suoceri, Salvatore Mancuso e Giulia Tripodi.

“Era come una caserma dei carabinieri. Venivano diverse persone alle quali avevano rubato qualcosa, la macchina o altro e venne pure un insegnante della Ragioneria di Vibo che si chiama Francesco al quale avevano fatto un furto in campagna. Le persone raccontavano l’accaduto e mio suocero si impegnava a trovare gli autori dei furti. Controllavano tutto, mio marito anche le targhe delle macchine che entravano ed uscivano da Limbadi. A casa venivano sempre Roberto Cuturello, Totò D’Agostino, Salvatore Ascone e Benito di Badia a portare soldi. Portavano i rimborsi dei soldi che prestavano ad altre persone. Ascone era amico di mio cognato Pino Bandera il quale dava pure lui soldi ad Ascone”.

Soldi ad usura, dunque. Una contestazione che viene mossa in un separato processo a Roberto Cuturello ed a Giulia Tripodi (ex suocera della Pytlarz), mentre Antonio D’Agostino, 63 anni, di Nicotera, è stato rinviato a giudizio (sempre in un procedimento diverso da Rinascita Scott) per favoreggiamento. Sotto processo dinanzi alla Corte d’Assise per riduzione in schiavitù e maltrattamenti in famiglia ci sono invece Domenico Mancuso e Giulia Tripodi, accusati di aver costretto Ewlyna Pytlatrz a vivere in condizioni insostenibili, vietandole di avere contatti con terze persone senza preventiva autorizzazione e, comunque, sempre in regime di stretto controllo e sorveglianza.

Giuseppe Mancuso, Pantaleone Mancuso, Salvatore Ascone e Roberto Cuturello non sono imputati in Rinascita Scott.