Sei agenti della polizia penitenziaria sono finiti agli arresti domiciliari per due invece è scattata l'interdizione. Tutti prestano servizio nella casa circondariale Panzera di Reggio Calabria e tutti, a vario titolo, sono accusati di tortura e lesioni personali aggravate ai danni di un detenuto dell’istituto penitenziario dove prestano servizio.

Al comandante del reparto, Stefano La Cava, che figura tra gli indagati ed al quale è stata applicata la misura degli arresti domiciliari, vengono contestati anche i reati di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, di omissione d’atti d’ufficio, di calunnia e tentata concussione.

L’operazione è stata condotta dalla polizia reggina e coordinata dalla procura retta Giovanni Bombardieri. Oltre ai destinatari delle misure cautelari, sono sottoposti ad indagine altri 4 poliziotti penitenziari, ai quali viene contestato il reato di tortura e lesioni personali in concorso, per i quali il gip si è riservato di valutare la richiesta di applicazione della misura cautelare interdittiva formulata dalla procura all’esito dell’interrogatorio, ed il medico dell’istituto penitenziario, indagato per il reato di depistaggio, per aver reso false dichiarazioni al pubblico ministero, per il quale il gip, sempre all’esito dell’interrogatorio, valuterà la richiesta di applicazione della misura della sospensione dalla professione medica.

I fatti contestati agli indagati risalgono al 22 gennaio 2022 e vedono come parte offesa un solo detenuto di origine campana, Alessio Peluso, che aveva messo in atto una protesta, rifiutandosi di far rientro nella cella dopo aver usufruito del previsto passeggio esterno. 

In risposta a tale condotta, secondo il provvisorio capo di imputazione, gli indagati avrebbero condotto in maniera illegittima il detenuto in una cella di isolamento, senza alcuna preventiva decisione del Consiglio di disciplina, ovvero senza alcuna previa decisione adottata in via cautelare dal direttore, serbando gratuite condotte di violenza e di sopraffazione fisica che cagionavano al detenuto acute sofferenze fisiche mediante più condotte e sottoponendolo ad un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Nello specifico, secondo la ricostruzione operata allo stato degli atti e fatti salvi i necessari successivi accertamenti di merito, le condotte si sostanziavano nel colpire ripetutamente il detenuto con i manganelli in dotazione di reparto, ma anche con dei pugni, facendolo spogliare e lasciandolo semi nudo per oltre due ore nella cella ove era stato condotto.

Per coprire tali condotte, ed evitare conseguenze per una eventuale denuncia da parte del detenuto, il comandante del reparto, avrebbe poi redatto una serie di atti (relazione di servizio, comunicazione di notizie di reato ed informative al direttore del carcere), in relazione ai quali gli vengono contestati i delitti di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, di omissione d’atti d’ufficio e di calunnia.

Nei giorni successivi lo stesso ufficiale avrebbe tentato di costringere, illegittimamente, un suo sottoposto a mostrargli delle relazioni di servizio relative alla sorveglianza dello stesso detenuto, e per tale motivo è stata formulata a suo carico anche l’ipotesi di reato di tentata concussione.

Le indagini, affidate dalla procura di Reggio Calabria, alla squadra mobile, sono state avviate dopo la denuncia sporta dai familiari di alcuni detenuti, tutti di origine campana, a cui le persone recluse nel corso di colloqui telefonici avevano riferito di essere stati malmenati all’interno del carcere.

I successivi approfondimenti investigativi, anche attraverso l’escussione dei reclusi da parte del pubblico ministero titolare delle indagini, avevano permesso già in una prima fase di circoscrivere ad un solo detenuto le condotte violente, così come poi confermato dalla visione e analisi delle telecamere interne dell’istituto di pena.