Chi in bici, qualcuno inforcando un vecchio motorino senza targa, altri a bordo di furgoni scassati: nello slum fatto di tende rabberciate e baracche ammassate l’una alle altre, la vita riprende poco prima del tramonto, quando i migranti impegnati nella raccolta – o almeno quelli che sono riusciti a trovare la giornata – fanno ritorno dai frutteti della Piana.

Per raggiungere la tendopoli, tocca superare una delle discariche abusive che con puntualità rispuntano ogni volta che vengono sgombrate, e addentrarsi nel deserto del retroporto di Gioia, proprio nella zona che dovrebbe ospitare il rigassificatore e l’annessa piastra del freddo. Venne allestita in fretta e furia in sostituzione della vecchia baraccopoli che sorgeva qualche centinaio di metri più in là e, almeno in origine, era stata pensata per ospitare poco meno di 200 migranti. Ora è complicato anche capire quante persone ci vivano dentro. Alle tende del ministero dell’Interno ormai in rovina si sono infatti sommate decine di baracche in cartone che hanno riempito ogni spazio disponibile. E altre vengono costruite ogni giorno. La stagione della raccolta delle olive, dei kiwi e dei mandarini verdi (quelli destinati ad essere messi sotto spirito per le produzioni industriali) è già iniziata e nuovi gruppi di migranti arrivano in continuazione: braccia fresche destinate, quando va bene, a galleggiare tra abissi di lavoro nero e grigio.

Davanti a quello che era l’unico ingresso della tendopoli, qualcuno ha accesso un cumulo di rifiuti sotto gli occhi annoiati di un paio di cani rachitici. Nello spiazzo che ospita i vecchi container ormai dismessi (e vandalizzati) di polizia, vigili del fuoco e protezione civile, alcuni operai del comune sono al lavoro per ripristinare le strutture che una volta contenevano i bagni e le docce, e che sono stati devastate quando anche la fornitura d’acqua era stata tagliata. Una volta rattoppati andranno ad affiancare i due nuovi container – provvisti di docce e lavatrici, dono di Papa Francesco, ma non ancora inaugurati in attesa dell’allacciamento alla rete elettrica – e quello che fino a un paio di anni fa ospitava i pompieri e in cui ora si sistemeranno gli operatori della Caritas, tra i pochissimi a prendersi cura di quello che succede all’interno di questo buco nero di umanità cresciuto a dismisura a due passi dal mare.

«La situazione era grave già in partenza ma è peggiorata parecchio negli ultimi anni. Da dopo il covid poi le cose sono precipitate. Il container che stiamo per rendere operativo è già stato saccheggiato: si sono portati via un paio di scrivanie, un modem e qualche altra sciocchezza. Ma i ladri potrebbero non essere tra gli ospiti della tendopoli». Nando collabora con la Caritas della diocesi di Oppido-Palmi e frequenta la tendopoli dal 2017, da prima ancora che l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini calò nella Piana a cavallo di una ruspa dell’esercito per smantellare, a favore di telecamera, la vecchia baraccopoli formatasi dopo la rivolta del 2010 e che era arrivata ad ospitare oltre mille persone. «Difficile dire quante persone vivano dentro – racconta ancora Nando a Lacnews24 mentre ci accompagna tra i vialetti sconnessi della favelas calabrese – probabilmente ora sono un po’ meno di 500, ma nessuno può dirlo con certezza. E i numeri sono destinati a salire nelle prossime settimane quando le campagne di raccolta di mandarini e arance entrerà nel vivo. Noi veniamo qui due volte la settimana per distribuire pasti caldi e poi siamo presenti con i nostri operatori e i nostri volontari per fornire assistenza ai residenti. Li accompagniamo in caso di visite mediche e forniamo assistenza legale, ma non è sempre semplice».

All’interno del recinto, superato il tornello divelto che una volta consentiva di avere sempre sotto controllo le presenze, si entra in un ambiente sospeso, dove la dignità umana è ridotta ai minimi termini e i diritti, anche i più elementari, diventano merce rara. L’unica acqua disponibile all’interno del campo è quella che viene fuori dalle fontane che si trovano ai quattro angoli della struttura ma di acqua calda per fare una doccia neanche a parlarne. Solo quella che in una delle tende viene riscaldata sul fuoco e rivenduta a chi ne fa richiesta: 50 centesimi per un secchio appena tirato fuori dalle braci. E poi c’è chi ha allestito un piccolo emporio con prodotti etnici, chi ripara le biciclette, chi ha messo su una bancarella con abiti e scarpe usate. C’è anche una sorta di improvvisata macelleria. In questo microcosmo abbandonato a se stesso e abitato da persone di almeno 17 nazionalità diverse (quasi tutti provengono da Paesi dell’Africa subsahariana), le condizioni di vita dei residenti restano vergognose. Anche la corrente elettrica è stata per anni solo una chimera. Da poco più di un anno, il comune di San Ferdinando, sul cui territorio ricade la tendopoli, si è incaricato di riallacciare la luce che ora viene distribuita da centraline interne che riforniscono le tende a gruppi di quattro per volta. Per evitare che si ripetano gli errori del passato – quando gli allacci abusivi alla rete provocarono diversi incendi e almeno un paio di morti tra le baracche – le centraline sono state murate e protette da un portello d’acciaio, ma a distanza di pochi mesi dall’intervento, sono tanti i fili “volanti” che si notano spuntare dalle tende per finire nelle baracche di nuova costruzione.

«Ormai ci sono così tante baracche improvvisate che è difficile anche trovare lo spazio per fare passare i soccorsi in caso di necessità – ci dice il direttore della Caritas diocesana Michele Vomera – un paio di anni fa prese fuoco una tenda proprio vicino alla struttura che ospita la moschea del campo. In quella occasione i pompieri non riuscirono a passare con i propri mezzi e uno dei residenti rimase vittima dell’incendio. Siamo riusciti a domare le fiamme solo grazie all’uso degli estintori. Una situazione che se si ripetesse adesso potrebbe portare alle medesime tragiche circostanze».