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Il martirio di Roberta Lanzino potrebbe essere stato vano. Sono passati 29 anni da quella torrida estate del 1988, quando la giovane venne seviziata e uccisa, ritrovata in una località impervia di Falconara Albanese, nel cosentino. Era il 26 di luglio. Per quell’efferato delitto, i sospetti caddero sul pastore Franco Sansone. Nei suoi confronti, nelle scorse ore, la Corte d’Appello si è espressa ribadendone l'innocenza. Un’assoluzione che pesa come un macigno sulla famiglia di Roberta, che da decenni attende giustizia per quella figlia strappata nel fiore degli anni.
Il verdetto della Corte D'Appello
Per Franco Sansone, il verdetto di secondo grado rappresenta una doppia assoluzione. A carico del pastore, per anni ribattezzato il mostro di Falconara Albanese, era stato aperto un altro filone di inchiesta, per un presunto caso di lupara bianca nel quale risultava indagato insieme al padre Alfredo. Inizialmente, per l’omicidio di Roberta Lanzino, venne sottoposto a procedimento anche un altro uomo, Luigi Carbone, scomparso misteriosamente a pochi mesi dal delitto.
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La soluzione nel Dna
L’unica speranza di giustizia, a questo punto, risiede in un pugno di terriccio prelevato nelle vicinanze del corpo della giovane vittima, sul quale venne rinvenuta una quantità minima di liquido seminale. Alla luce della nuovo elemento, che potrebbe diventare la prova regina, gli inquirenti hanno acquisito una certezza. In quel pugno di terra c’è il Dna dell’assassino. Identificarne l’appartenenza, a trent’anni dal delitto, potrebbe rappresentare l’unico modo per dare un volto e un nome all’assassino.