L’ultima udienza del maxiprocesso Rinascita Scott si è aperta con il conferimento dell’incarico, da parte del Tribunale presieduto dal giudice Brigida Cavasino, agli ulteriori periti chiamati alla trascrizione della impressionante mole di intercettazioni depositata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Lo stesso collegio ha autorizzato la richiesta di astensione da parte di altri periti precedentemente incaricati, ovvero Francesco Maria Nardone e Walter Vercillo, finiti al centro del caso – sollevato dal procuratore Nicola Gratteri sulla scorta delle note informative del pm Anna Maria Frustaci e dei carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo di Vibo Valentia – inerente situazioni di incompatibilità. Gli stessi consulenti dovranno comunque depositare gli elaborati già redatti.

Gioco d’azzardo e non solo

Passaggio propedeutico alla ripresa del controesame del collaboratore di giustizia Andrea Mantella. È stato l’avvocato Franco Petrilli, che assiste l’imputato Domenico Bruno Moscato, a riaprire la girandola. «Non sono mai stato nella tabaccheria di Moscato – ha spiegato il collaboratore rispondendo al penalista – ma sono stato nella bisca di viale della Pace. Non so di chi fosse lo stabile, ma chi la gestiva era Domenico Bruno Moscato, in nome e per conto dei Lo Bianco-Barba». «Lei sa che era un’associazione culturale?», la domanda del difensore. «No, non lo so, so solo che ci giravano un sacco di soldi e si faceva usura e strozzo. Io lì però non ci ho mai giocato – ha ammesso il pentito – Ma conosco Moscato da sempre. Mai ricevuto uno schiaffo da nessuno e neppure da lui, con lui ero in rapporti buoni. Da Enzo Barba e dagli altri ambienti criminali sapevo che faceva usura. In mia presenza non ha mai fatto usura e non ho mai visto Moscato in un summit di ‘ndrangheta, ma era funzionale alla ‘ndrangheta. Non so se fino al 2011 fosse sotto usura».

Gli emergenti

Petrilli ha, quindi, sollecitato il collaboratore sulla posizione dell’imputato e attuale superlatitante Salvatore Morelli: «Era il mio braccio destro e a livello criminale era strutturato bene. Ha le qualità per essere o diventare un boss. Quando era libero e io in carcere, assieme a Salvatore Mantella curava, fino al 2016, i miei affari». Poi su Domenico “Mommo” Macrì: «Io l’ho lasciato in carcere a Melfi e non so se si era avvicinato ad un altro gruppo».

La vecchia guerra di mafia

A seguire, la prosecuzione del controesame da parte dell’avvocato Mario Murone, difensore di Saverio Razionale. «Quando ci fu la faida tra i vibonesi ed i sangregoresi avevo più o meno dieci anni – ha spiegato Mantella – l’ho vissuta personalmente perché è stato ucciso il fratello di mia mamma. E allora registravo tutte le parole di mia mamma e della famiglia. Poi ovviamente quando sono cresciuto nella criminalità organizzata, ho appreso altri particolari». Sollecitato sull’omicidio di Pino Gasparro, avvenuto nel 1981, Mantella ha spiegato: «Posso raccontare quello che è successo in quel contesto, per sentito dire dai miei genitori e dai miei zii. Avevo otto anni, registravo domande e interrogativi che si ponevano». A seguire il richiamo ad altri agguati, tra omicidi e tentati omicidi, che hanno visto vittime i vibonesi. «Sono tutti fatti che, benché bambino, ho appreso sempre nel contesto familiare. So che mia madre, dopo l’omicidio di suo fratello, ha reso delle dichiarazioni che poi ha ritrattato perché indotta a farlo. Questi sono i miei ricordi, però non so cosa effettivamente avesse dichiarato prima».

Bartolomeo Arena

Il controesame dell’avvocato Murone, quindi, si è interrotto quando l’avvocato Paola Stilo, ha comunicato che il suo assistito, Francesco Stilo, è stato costretto ad allontanarsi dall’udienza per un malore. «Ricordo quando fu ucciso Antonio Arena detto “Vartolo” – ha quindi ripreso Mantella –. Conoscevo il figlio che era un ragazzetto spigliato che vedevo in giro a Vibo ma con me non ha mai fatto nulla. Solo leggendo i fogli del servizio centrale di Protezione che mi sono stati notificati, ho appreso che questo ragazzo, Bartolomeo Arena, oggi è un collaboratore di giustizia. Anche sull’omicidio di Tonino “Vartolo” ho riferito cose che ho appreso negli anni ‘80». E ancora, sempre in risposta al difensore: «Io avevo un cugino, Giuseppe Mantella, fratello di Salvatore, che credo si frequentasse con Bartolomeo Arena, che poi sposò una nipote di Gianfranco Ferrante. All’epoca, Arena era un ribelle, un teppistello». Poi: «Nel 2012 non so se venne creato a Vibo un nuovo locale di ‘ndrangheta. In quella fase ero detenuto e mi interessavo di altro. Non so se fu battezzato allora, so che era un giovane d’onore, per rispetto a suo padre. Suo nonno era della ‘ndrangheta, suo padre pure. Bartolomeo era nell’anticamera per essere formalmente rimpiazzato».

Gli altri

Poi, su Giuseppe Pugliese Carchedi, cugino di Bartolomeo Arena, già vittima di omicidio ad opera del clan dei Piscopisani: «Non ricordo di aver chiesto a lui di uccidere Gangitano (Filippo detto il Picciotto poi scomparso per lupara bianca, ndr). Quando finsi la caduta da cavallo ed ero in ospedale agli arresti domiciliari, ricordo che con Pugliese Carchedi venne anche Arena a trovarmi». Andando avanti: «Conosco sia Salvatore Tulosai, intraneo da sempre ai Lo Bianco-Barba. Conosco anche Fortunato Mantino, con cui abbiamo anche una lontana parentela. Era nel contesto della criminalità organizzata di Vibo Marina. Con loro avevo rapporti buoni. Non ricordo che Arena mi sottopose la vicenda del furto di una macchina che interessava a Tulosai e Mantino».

Saverio Razionale

Sui rapporti con Saverio Razionale, boss di San Gregorio d’Ippona, invece: «Prima del 1993 io non avevo rapporti con Razionale, che salutavo soltanto perché una persona più grande di me. Era un mito della ‘ndrangheta. Io aspiravo a quei falsi miti. Nel 1999, quando eravamo in carcere insieme, ci incontravamo tutti i giorni, perché eravamo nella stessa sezione. Eravamo sempre insieme. Eravamo con Pietro Portolesi di Platì, Giovanni Morabito e altri. Ricordo che i platioti ci facevano mangiare i ghiri e lui che li schifava li metteva nel mio piatto per non fare brutta figura. Del collaboratore Servello, negli anni 2000, mi parlò in generale, ricordo che mi disse che si era salvato sia dalle dichiarazioni di Servello che da quelle di Pasqualino D’Elia, che sapeva dell’omicidio di Francesco Fortuna, per il quale Razionale temeva di andare in carcere».