Da «ragazzetto spigliato» - Andrea Mantella dixit - ad aspirante ‘ndranghetista di rango. Reo confesso e pentito, continua, nell’aula bunker di Lamezia Terme, l’esame di Bartolomeo Arena, figlio di Antonio “Vartolo”, uomo d’azione e boss emergente vittima della lupara bianca nella turbolenta Vibo Valentia degli anni ’80. Collaboratore a sorpresa - il cui contributo dichiarativo ha consentito di sventare l’omicidio di Rosario Pugliese alias “Cassarola” - Bartolomeo Arena potrebbe risultare decisivo per definire, nel maxiprocesso Rinascita Scott, le più recenti dinamiche mafiose in seno al Crimine portato alla sbarra dal pool di Nicola Gratteri.

Domenico Pardea ‘u Ranisi

Legatosi al rigenerato gruppo dei Ranisi, poi determinato ad operare una scissione (fallita) attraverso la costituzione di un nuovo clan unitamente a Francesco Antonio Pardea, Arena - assistito dall’avvocato Giovanna Fronte - risponde alle domande del pm Andrea Mancuso.

L’esame riparte dal profilo di Domenico Pardea, figura di spicco della malavita tra Vibo e Pizzo, «in stretto contatto con Rocco Anello, boss di Filadelfia. Si occupa di spaccio di cocaina ed estorsioni», specifica il collaborante. E poi: «Fino al 2018 eravamo io e Francesco Antonio Pardea a rifornire di cocaina Domenico Pardea. Si occupava della vendita al dettaglio, lui la comprava da noi e lui la spacciava. Noi prendevamo la cocaina pura, la cosiddetta scaglia. La prendevamo a 33-34 euro, poi lui la prendeva a 50, la tagliava e la vendeva a singole dosi. Quello che guadagnava erano affari suoi. So che aveva tanti ragazzi che gli facevano da spacciatori, erano sotto di lui, ma non li conoscevo».

Aggiunge Arena: «C’è stato un periodo che abbiamo saputo che è stato in società con il figlio di Roberto Piccolo. Più recentemente spacciava anche con il nipote Mommo Macrì, che prendeva la droga da Leone Soriano o da Silvano Mazzeo e poi si metteva d’accordo con lo zio. In pratica prima rientravano con il capitale e poi dividevano i proventi».

L’agguato di Vibo Marina

Il pentito racconta anche l’agguato subito da Domenico Pardea negli anni 2000 a Vibo Marina «mentre era in compagnia della fidanzata. È stato un agguato serio e si è salvato per miracolo. Noi sapevamo autori e movente.  Era stato trasferito d’urgenza all’ospedale di Reggio Calabria. Aveva un debito di droga con i fratelli Loielo, poi assassinati nelle Preserre nel 2002. Poi c’era un altro motivo, perché in quel periodo Pardea metteva bombe a scopo estorsivo assieme a Nicola Fiarè di San Gregorio e disturbò gli affari di Nino Accorinti di Briatico e Pantaleone Mancuso alias “Scarpuni”, che diede l’ordine dell’agguato. L’agguato fu teso da Giuseppe Loielo assieme ad un ragazzo di Fago Savini che si chiama Nardo ed era il figlio di quello che uccise Bruno Tassone di Soriano. So che l’autista che li accompagnò sul luogo dell’agguato fu Nazzareno Colace di Porto Salvo. Queste cose me le disse direttamente Domenico Pardea».

I traffici di armi

Arena racconta anche di quella volta che «andammo a trovare Domenico Pardea, che aveva armi che ci potevano interessare. Sono andato con Antonio Macrì, che è il fratello di Domenico Pardea, malgrado avessero cognomi diversi, erano figli dello stesso padre e della stessa madre. C’erano pistole 6.35 e 7.65, un fucile calibro 12 e una 38 Smith & Wesson. E con Antonio Macrì le abbiamo prese, ad un prezzo che abbiamo fatto noi. Gli abbiamo dato per tutto 1.400 euro. Tra di noi scherzavamo, perché in fondo lo avevamo fregato». Arena chiarisce pure che «la 38 l’ho condivisa con Domenico Camillò, detto “Mangano”, figlio di Giuseppe Camillò, che la custodiva. Abbiamo fatto diversi danneggiamenti ed è stata la stessa 38 con cui ha avuto una sparatoria a Piazza Municipio ed ha ferito Mirko Lagrotteria che era un suo amico».