AUDIO | In alcune conversazione captate dalle forze di polizia il capobastone di Sant'Onofrio racconta quando a 16 anni si trovò coinvolto con pochi membri della sua famiglia in una sanguinosa faida vinta dopo avere insediato un regime di terrore
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Non ha ancora una condanna passata in giudicato, ma è considerato un boss di ‘ndrangheta di alto profilo dalla Dda di Catanzaro, oltre che uno dei ricercati più pericolosi d’Italia. Stiamo parlando di Pasquale Bonavota, 46 di Sant’Onofrio nel Vibonese, la sua è una storia da romanzo criminale. Quella di un ragazzino cresciuto in un paese del Sud dove il sangue e i morti ammazzati erano all’ordine del giorno.
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Una storia vera, segnata dalla ’ndrangheta che incuteva terrore: un boss bambino divenuto uomo. Una storia che gli inquirenti hanno potuto apprendere dalla sua voce, captata durante le indagini dell’inchiesta Uova di drago e trasmesse in esclusiva nel corso della prima puntata di Mammasantissima - Processo alla 'ndrangheta: «Allora, quando hanno sparato a mio zio Saro, che dall’ospedale di Vibo Valentia lo portavano a Reggio, io e mio padre avevamo la pistola addosso. E all’ospedale chi cazzo c’era?! Che avevamo paura che l’ammazzassero… Solo io, sedici anni, e mio padre».
Era il 2007 e per la prima volta un’indagine fotografò la potenza di un clan che aveva insediato un regime di terrore nel suo territorio di competenza. Bonavota si trovava nella sua auto, ignorando che vi fosse una microspia installata dai carabinieri nell’abitacolo. Ed il suo è un racconto che mette i brividi. Già capobastone a 31 anni e il rispetto da chi non gliel’aveva dato, se l’era preso.
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I clan ai materassi
Ricorda, Pasquale Bonavota, unico indagato sfuggito alla cattura dopo la maxi operazione Rinascita Scott. Torna indietro all’inizio del 1990, ai giorni in cui, direbbe Mario Puzo, i soldati delle cosche erano ai «materassi». Il 27 gennaio fu assassinato in un agguato Francesco Calfapietra, mentre rimase gravemente ferito lo zio di Pasquale, Rosario Cugliari. Pasquale, troppo giovane per essere considerato un uomo, era solo al fianco di Vincenzo, suo padre, anzi, il patriarca. «Solo io, sedici anni, e mio padre», a vigilare armati sulla vita dello zio Saro, ricoverato in ospedale. Quell’intercettazione così cristallizza la genesi di una lunga storia, i cui dettagli vengono puntellati dal profluvio di pentiti, vecchi e nuovi, fino ai giorni nostri.
Un solo clan in piedi
Aveva la stoffa del boss a 16 anni, cresciuto a immagine e somiglianza del patriarca. Alle indagini su quella fase della vita di Pasquale Bonavota contribuiscono i racconti dei pentiti, le intercettazioni, le relazioni dei carabinieri e le sentenze. Un temperamento da duro che emergerebbe, secondo gli inquirenti, durante la faida nella quale i Bonavota erano soli e rischiavano di essere annientati dal clan rivale dei Petrolo.
Dovevano reagire, anche se in pochi, anche se soli. Perché solo una cosca sarebbe rimasta in piedi. «Siamo andati ad allenarci con i fucili a sparare - dice in un’altra intercettazione - io, mio zio Lele che non era nessuno ed era pronto a venire con me, e mio zio Bruno. Hai capito chi eravamo?».
Un destino segnato
Ci sarebbe stato molto sangue e fu per questo che Pasquale suggerì ai parenti di trasferire tutte le donne della famiglia in Francia. «Chi vuole restare - dice - si deve mettere nella testa che deve sparare». La Sant’Onofrio degli anni ’90 era questa, quella della Strage dell’Epifania e degli agguati giornalieri. Questa fu la culla di Bonavota. Non avrebbe così lasciato che la sua famiglia fosse stata annientata nella faida. Era solo un adolescente e già un padrino. Sarebbe stato lui a stringere contatti con gli Alvaro per pianificare la latitanza dello zio Domenico Cugliari. Sarebbe stato lui il braccio destro del padre nella pianificazione di un attentato a Rosario Petrolo, poi sfumato a causa di un incidente stradale, occorso al commando di killer reclutati da Mileto. Sarebbe stato lui a prendere parte attiva a tutti i vari attentati e a tenere in mano le redini della famiglia quando il patriarca Vincenzo fu arrestato.
La nascita di un boss
È in questo clima pesante, in quel lembo di Calabria chiamato Sant’Onofrio, che cresce Pasquale Bonavota: adolescente chiamato a diventare capo troppo presto e nel volgere di qualche anno trasformatosi in un capo capace di incutere terrore e rispetto, di prendere in mano le redini della famiglia dopo la morte di Vincenzo. Giovane, ma capace di riformare la cosca negli affari e nella struttura, estendendo la rete delle attività illecite al Centro e al Nord, imponendosi come figura carismatica di una criminalità giovane e rampante, decisa a scalzare il dominio dei Mancuso nel quadrilatero Sant’Onofrio, Stefanaconi, Maierato e Pizzo, tenendo buone le vecchie frange e alleandosi con le nuove provenienti dalla città capoluogo di provincia.
Gli affari a Roma, poi la fuga
Cresciuto in una Sant’Onofrio nella quale Bonavota riteneva che per sopravvivere l’unica via possibile fosse quella di uccidere, avrebbe lasciato al fratello Domenico il controllo del territorio, lui invece si sarebbe dedicato agli affari. Droga, soprattutto, armi. E poi riciclaggio. Specie a Roma: bar, tavole calde, attività economiche insospettabili gestite grazie a prestanome. Fiumi di soldi.
Secondo le indagini, Pasquale Bonavota è diventato in breve tempo un boss a tutto tondo, di caratura nazionale. E fece il salto di qualità proprio quando spostò la sua vita, ed i suoi affari, nel centro e nel nord Italia. E da una intercettazione in carcere la polizia registra una discussione con il compagno di cella. In quella intercettazione racconta il suo primo scontro con polizia e carabinieri, lontano dalla terra d’origine, quando per le forze dell’ordine lui era un calabrese qualunque.
L'intercettazione
«Io mi ricordo ero tanto (cioè piccolo, bambino) che mi criticavano, perché ero troppo pacifico». Una voce ruspante, un marcato accento calabrese. Bonavota lamentava come nel suo paese, quello che di fatto, trasferendosi a Roma, ha poi lasciato al governo del fratello Domenico, Sant’Onofrio, non vi fosse una vera mentalità mafiosa che evidentemente assicurasse un rispetto delle regole e della militanza malavitosa, specie se vissuta nelle carceri.
Infine evidenziava come il ritorno in libertà, dopo una lunga carcerazione, di Rocco Anello, boss di Filadelfia e del territorio cuscinetto tra la il Vibonese ed il Lametino, avesse scombussolato i piani di un altro mammasantissima, Pantaleone Mancuso detto Scarpuni.