Dopo la frana che ha sbriciolato parte dello scoglio dove sorge il santuario di Santa Maria dell’Isola, cresce l’allarme tra gli esperti. Intanto i benedettini di Montecassino, proprietari del faraglione e della chiesa delegano l’ex sindaco Peppino Romano a valutare la situazione
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«La situazione è particolarmente rischiosa, non c’è tempo da perdere, perché potrebbe venire giù tutto». Non nasconde la sua preoccupazione Carlo Tansi, geologo ed ex capo della Protezione civile calabrese, mentre guarda una foto che dimostra in maniera plastica quanto sia precaria la stabilità dell’iconico scoglio di Tropea sul quale sorge il santuario di Santa Maria dell’Isola.
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Un unico diaframma di roccia sembra puntellare (per ora) l’enorme faraglione, una parte del quale si è già sbriciolata poco dopo l’alba di ieri. Erano le 7.27 quando un enorme boato ha scosso la tranquillità della località calabrese forse più nota nel mondo. Le telecamere a circuito chiuso di un lido balneare distante pochi metri dalla parete che è franata in mare, hanno registrato il momento del cedimento strutturale, con centinaia di tonnellate di roccia che si sono abbattute sulla spiaggetta che d’estate pullula di bagnanti in cerca dell’angolo più suggestivo di Tropea. Se fosse accaduto in un altro momento dell’anno, ma anche nelle ore successive, poteva essere una strage.
«Lo scoglio dell’Isola è fatto di arenarie molto tenere - spiega Tansi -, un tipo di roccia che consiste in granuli cementati tra loro, ma sempre di sabbia compattata si tratta. È una roccia molto porosa, nella quale penetra il mare e la salsedine. E sono proprio i cristalli di sale che creano una situazione di stress continuo rendendo la roccia friabile. In questo caso, poi, il basamento del costone che è crollato è stato letteralmente scavato dal moto ondoso e alla fine il peso della porzione sovrastante, non avendo più un appoggio stabile, ha determinato la frana».
Ora la ferita nel faraglione è visibile anche a chi non è un geologo: il crollo ha reso ancora più manifesta l’instabilità della parete che sembra appoggiata allo scoglio. «Le faglie che attraversano la roccia sono evidenti - continua Tansi -, fratture subverticali il cui spostamento può causare un disastro. Perdere questo tesoro naturalistico è impensabile. Ecco perché non si può far passare un altro inverno senza intervenire». Intervenire. È questa la parola magica che può ora scongiurare l’impensabile: privare Tropea e la Calabria del suo gioiello esotico, uno sperone di roccia bianca riconoscibile in tutto il mondo.
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Ma quel posto, con la chiesa che vi sorge sopra, il Santuario di Santa Maria dell’Isola appunto, non è del Comune, né dello Stato italiano. In pochi sanno, infatti, che l’Isola e la sua chiesa sono di proprietà dei benedettini di Montecassino, ai quali lo scoglio fu donato in epoca Normanna. Qui, durante il Medioevo, una piccola comunità di religiosi sovrintendeva agli affari e ai commerci in Calabria per conto dell’Abazia di Montecassino, che detiene ancora la proprietà del faraglione. Infatti, dopo la comunicazione del crollo effettuata dal rettore del santuario di Santa Maria, Nicola Berardi, l’abate di Montecassino ha delegato l’ex sindaco Peppino Romano, presidente del club Unesco di Tropea, a monitorare e vagliare la situazione, per valutare come procedere.
«Stiamo effettuando dei sopralluoghi accurati insieme alla Protezione civile e ai vigili del fuoco - conferma Romano -. Purtroppo, alla fine il mare ha avuto la meglio, erodendo la base del costone e causando la frana. Nel 2020 il Comune ha chiesto un finanziamento per consolidare la parete ma i fondi non sono stati concessi. Ma adesso è chiaro che servono più controlli e più finanziamenti per preservare questi luoghi». Candidare Tropea, la sua rupe e Santa Maria dell’Isola a rientrare nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco è un’idea che Romano persegue da sempre.
«Finora non ci siamo riusciti ma non demordiamo. Se riuscissimo a centrare questo obiettivo, anche la tutela sarebbe più semplice perché ci sarebbero più controlli e finanziamenti a disposizione».
Ma al netto delle ambiziose aspirazioni, anche Romano la pensa come Tansi: «Non c’è tempo da perdere, la situazione non può più essere sottovalutata. Regione e ministeri competenti devono fare la propria parte». Gli strumenti tecnologici e le conoscenze scientifiche ci sono, sottolinea Tansi. Bisogna soltanto prendere piena coscienza del problema e agire di conseguenza.
Una corsa contro il tempo non soltanto per salvare un patrimonio di inestimabile valore paesaggistico e culturale, ma anche per evitare che la prossima volta, sotto quei massi di arenaria, ci possa lasciare la vita qualcuno. Intanto curiosi e turisti non sembrano preoccuparsi troppo e, nonostante i divieti (l’ordinanza comunale che proibisce l’accesso risale al 2014), le transenne e il nastro bianco-rosso che delimita l’area, continuano ad avventurarsi in prossimità del costone.