«Noi in quarantena ci viviamo tutti i giorni da dieci anni a questa parte, viviamo relegati in casa, da questo punto di vista per noi non è cambiato niente. Ma con la diffusione del Covid 19 i disservizi sono aumentati e insieme ad essi preoccupazione ed esasperazione». A parlare è Rosita Terranova, madre di un bambino gravemente malato, nota nella città di Cosenza e non solo per le sue battaglie civili a tutela delle persone affette da disabilità. L'abbiamo intervistata per capire come stanno vivendo lei e suo figli questi drammatici giorni di quarantena e abbiamo scoperto che anche in situazioni estreme come quella di una pandemia mondiale, non esiste alcun piano che tuteli i disabili e che, anzi, la disorganizzazione e l'approssimazione provocano ulteriori disagi ai malati e alle loro famiglie.

Interrotta l'assistenza domiciliare

Il primo ostacolo che Rosita e il piccolo Antonio Maria hanno dovuto affrontare è stata la rinuncia all'assistenza domiciliare. «Per quanto io a casa abbia tutto l'occorrente per proteggere mio figlio e i professionisti che lo tengono in cura, non avevo la garanzia che queste persone, una volta fuori e in contatto con altri pazienti, avessero dispositivi di protezione a sufficienza per scongiurare un contagio». Di qui la dolorosa decisione di rinunciare alle visite del logopedista, del neuropsicomotricista, degli infermieri e degli oss specializzati che curano sia l'igiene di Antonio Maria che dell'ambiente circostante. «Mio figlio ha ricevuto solo le cure del fisioterapista della respirazione, che poi ricopre anche l'incarico di fisioterapista motorio». E neanche stavolta ci ha pensato lo Stato. «Mesi prima dell'emergenza sanitaria - spiega Rosita - ci siamo innamorati e abbiamo deciso sin da subito di vivere insieme».

Antonio Maria dimenticato dall'Asp

Se ciò non bastasse, durante la quarantena mamma Rosita ha dovuto fare i conti anche la solita "sbadataggine" degli uffici pubblici e quelle "dimenticanze" che feriscono la dignità. «Anche la strafottenza - così la chiama la mamma di Antonio Maria - è un virus pericoloso». È accaduto che lo scorso febbraio, come ogni anno, è stata riscritta la pratica per ricevere la fornitura gratuita di pannolini, Antonio Maria ne consuma una confezione ogni due giorni e solo quelli della marca che gli ha prescritto il medico. Ma nel trambusto della pandemia, l'Asp affida la produzione e la distribuzione dei pannolini a una nuova azienda e dimentica di informarla che Antonio Maria, e tanti bambini come lui, usano esclusivamente quel particolare tipo. Sulla lista i loro nomi non ci sono e nessuno avvisa le famiglie. Così i pannolini non arrivano e Rosita deve comprarli da sé, a sue spese: 22 euro a confezione.

«Spero che mio figlio muoia prima di me»

«Perché chi si occupa di politica non fa nulla per evitare sofferenze alle famiglie già devono fare i conti con un destino avverso?». Se lo chiede da sempre mamma Rosita e oggi che continua a vivere da reclusa, che avrebbe ancora più bisogno dell'aiuto della politica e dello Stato ma nessuno ascolta il suo grido di aiuto, è maturata in lei la convinzione che la morte potrebbe essere l'unica soluzione a una situazione che può solo peggiorare. «Lo dico con estremo dolore, ma vorrei che figlio morisse prima di me per non lasciarlo solo a questo mondo, io sono l'unica che vuole davvero vuole proteggerlo».

«Temo un'ecatombe»

Il piccolo Antonio Maria è un paziente immunodepresso, cioè ha una sensibile diminuzione delle difese immunitarie e per lui e per le persone nelle sue stesse condizioni il coronavirus potrebbe risultare fatale. «Ho paura - dice Rosita - di cosa accadrà dopo il 27 aprile o il 4 maggio», giorni in cui sono previste le riaperture di alcune attività su scala nazionale. «I professionisti che operano nel settore della sanità - continua - avranno la possibilità di tornare a lavorare nelle strutture private e dopo due mesi di stop la decisione di ricominciare è quasi forzata. Questo però mette a rischio i pazienti, che già soffrono di altre patologie e sono quindi più fragili. Si potrebbe andare incontro a un'ecatombe. Io ritengo che nessun guadagno economico possa giustificare un simile atteggiamento, la decisione di ritornare a lavoro non dovrebbe essere a discrezione degli operatori. Ho tanta paura per il mio bambino».