C’è stata un’epoca in cui una piccola frazione di poche centinaia di abitanti era la capitale del divertimento calabrese. Era il tempo in cui la Costa degli dei non si chiamava neppure così, si poteva andare su un Sì senza casco e i falò in spiaggia avevano il sapore di Marlboro rosse e tequila bum bum.


Santa Domenica di Ricadi, un tiro di schioppo da Tropea, era il cuore della movida vibonese. Qui due discoteche hanno scritto la storia di intere generazioni, marcato i tempi di estati indimenticabili sulle note ritmate degli Enigma e Haddaway, di Gigi D’Agostino e Robert Miles. Quei due nomi sono ancora oggi ricordati da tutti con un fremito di nostalgia e un pizzico di orgoglio che porta subito a dire «io c’ero»: Casablanca e Rebus.

Che ne sanno i 2000

Non è facile spiegare a un ventenne di oggi cosa abbiano rappresentato quelle icone per chi adesso ha qualche capello bianco e litiga quotidianamente con lo smartphone. Per provarci siamo stati su quei luoghi immaginando di respirare ancora il profumo fruttato della macchina del fumo e di vedere i dj di Rtl far ballare frotte di uomini e donne smaniosi di divertimento.


Tornarci oggi è un colpo al cuore. Vedere lo stato di abbandono in cui versano, trasformate dall’azione dell’uomo e della natura, è come incontrare un vecchio amico dopo decenni e realizzare che il tempo è un pendolino inarrestabile che non conosce fermate.

Il Casablanca

Dopo la confisca ai clan Mancuso e La Rosa in seguito alle inchieste giudiziarie che ne hanno decretato la chiusura nei primi anni 2000, il Casablanca ha visto recentemente l’intervento delle autorità che hanno ripulito e messo in sicurezza la zona interessata da dissesto idrogeologico. Trovarsi davanti l’edificio è come passeggiare sul lato oscuro della luna, un deserto su cui si staglia una cattedrale fatiscente. Dal lato a monte la cupola mantiene ancora il nome della discoteca, sbiadito ma presente, come se volesse nascondersi agli occhi delle auto che ogni tanto passano in quel canyon, e mostrarsi solo a chi ha l’ardire di addentrarsi nelle sue viscere.

 

Il resto è solo macerie e degrado. Come la zona del bar: banconi rovesciati, qualche pacchetto di Chesterfield accartocciato, un capitello impolverato, sedie rotte, confezioni di preservativi. Le due piste non esistono più, sommerse da tonnellate di metri cubi di terra e fango: sembra quasi che un folletto desideroso di quiete abbia voluto cancellare i milioni di passi danzati su quelle piastrelle. Non resta nulla. Solo i ricordi di chi ha vissuto quel tempo e ne conserva geloso ogni frangente.

Il Rebus

A pochi chilometri di distanza la situazione non è migliore: il ponticello ferroviario che sorvegliava l’accesso al Rebus è l’unico elemento immutato. Il canto armonioso del mare in lontananza stride con la desolazione che segna ogni angolo, ma le cicale suonano ritmiche come i dischi di un tempo, quando il subwoofer scandiva il cammino di avvicinamento al grande cancello, oggi invaso da erbacce secche e piante infestanti. Dentro si intravedono palme, mattoni a vista, la scala che conduceva al prive. Al centro la pista, sovrastata dalla struttura su cui poggiavano luci stroboscopiche e spie audio. Entrare è impossibile, la pesante struttura metallica è serrata, custodisce come uno scrigno inaccessibile segreti e ricordi, amori ed eccessi che furono.

Il marchio su un’epoca

A ben vedere questi templi moderni hanno rappresentato uno spartiacque per il turismo della zona. Dalla loro dismissione le file di macchine parcheggiate fino all’ospedale di Tropea (distante quasi un chilometro e mezzo) non si sono più viste. Anche i locali che vivevano di riflesso accogliendo i ragazzi per il rituale cornetto dell’alba hanno mutato target. Oggi la costa è un punto d’attrazione per famiglie e coppiette in cerca di relax, anche per via delle normative che hanno imposto un giro di vite su ordine pubblico e sicurezza.


Una serie di fattori ha decretato la fine del periodo d’oro delle discoteche, divenuto ormai uno sbiadito ricordo, oggetto di reportage giornalistici e nostalgici gruppi sui social.
Ma forse, in fondo, è giusto così. Forse alcuni luoghi devono continuare a esistere solo nell’anima di chi li ha vissuti.