Ecco il filmato inedito realizzato dal regista francese Mosco Levi Bocault in cui l'ex boss di San Giuseppe Jato chiede scusa e parla della sua collaborazione: «Una scelta morale, guidiziaria e umana per mettere fine a un'agonia continua»
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Un uomo che fa i conti con se stesso, che spera di essere capito e chiede perdono. Giovanni Brusca si presentava così in una intervista rilasciata al regista-documentarista francese Mosco Levi Bocault per il film «Corleone». Correva l’anno 2015. Oggi, l’ex killer di Cosa nostra è un uomo libero. Nei giorni scorsi l'ex boss di San Giuseppe Jato, ha lasciato il carcere di Rebibbia avendo finito di scontare la pena.
La richiesta di perdono alle famiglie delle vittime
Brusca non fu solo l’uomo che il 23 maggio 1992 azionò il telecomando per la strage di Capaci nella quale morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. Il collaboratore di giustizia è stato riconosciuto colpevole di oltre 100 omicidi e tra le sue vittime figurano anche il giudice Rocco Chinnici e il piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino Di Matteo) strangolato e sciolto nell'acido.
Ed è proprio ai familiari delle vittime, nel lavoro del regista francese in parte ripreso dal Corriere della Sera, che Brusca rivolge il suo messaggio: «Ho deciso di farlo (l'intervista nrd) per fare i conti con me stesso, perché è arrivato il momento di metterci la faccia», spiega. L’intervista diventa occasione «poter chiedere scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime a cui ho creato tanto dolore e tanto dispiacere».
Negli anni di collaborazione con la giustizia «ho cercato di dare il mio contributo, il più possibile e dare un minimo di spiegazione ai tanti che chiedono verità e giustizia», aggiunge l’uomo considerato ai tempi fedelissimo di Totò Riina.
«Cosa nostra una catena di morte»
Le scuse vengono poi rivolte alla famiglia: «A mio figlio e a mia moglie che per causa mia hanno sofferto e stanno pagando anche indirettamente le mie scelte di vita, prima da mafioso poi da collaboratore di giustizia perché purtroppo nel nostro Paese chi collabora con la giustizia viene sempre denigrato, disprezzato quando invece credo sia una scelta di vita importantissima, morale, giudiziaria ma soprattutto umana». Tutto questo percorso, conclude l’ex boss «consente di mettere fine a Cosa nostra che io chiamo una catena di morte, una fabbrica di morte, un’agonia continua».