Fa rabbia sapere che per medici e infermieri in prima linea non ci sono adeguate misure di prevenzione. La Calabria sembra attendere l'evolversi degli eventi senza una reale capacità di intervento. E Santelli ammette che i macchinari per i 400 posti in più in terapia intensiva «arriveranno tra 45 giorni»
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«I politici e i calciatori i test se li fanno anche se stanno bene. I medici no». Non è un barricadero Filippo Anelli. Presidente della Fnomceo, la federazione nazionale degli Ordini dei medici. Ai più il suo nome e il suo volto erano sconosciuti prima che l’epidemia di Covid-19 travolgesse l’Italia, crocifiggendola all’esiguità del suo sistema sanitario, falcidiato da troppi tagli. Adesso però, con la Lombardia sull’orlo del collasso e il Sud dalla sanità zoppa che trema in attesa del prevedibile aumento dei casi, non si tira indietro. Perché nella trincea dove si combatte davvero contro il coronavirus ci sono medici e infermieri. E nel silenzio sono i primi ad ammalarsi. «I professionisti a rischio contagio non devono andare in corsia senza aver fatto il tampone» denuncia Anelli a Repubblica.
«Tampone a medici e personale»
Attualmente i camici bianchi che vengono a contatto con un caso positivo vengono sottoposti a tampone solo se hanno sintomi. Secondo le linee guida ministeriali bastano le protezioni – mascherina, guanti, tuta, occhiali - per evitare i contagi, ma l’esperienza cinese ha dimostrato che non è così. Lì i medici erano regolarmente sottoposti a test.«Se hanno paura degli sprechi – denuncia Anelli - commettono gravi errori, anche perché questo strumento in Cina si è rivelato utile per contenere l’epidemia».
L'aumento del rischio clinico
Anche in assenza di sintomi, i medici a rischio – sottolinea – devono essere esaminati. Sulla stessa linea l’Anaoo che con una lettera al governo denuncia «c’è un notevole aumento del rischio clinico, per il lavoratore e per i pazienti, data la grave e persistente carenza di protezioni, di tamponi e il colpevole ritardo nell’eseguire e processare gli stessi. Il personale esposto poi deve essere sottoposto obbligatoriamente al tampone».
#EroiUnaMinchia
Un allarme che diventa grido di rabbia e di dolore. «Tra gli operatori sanitari della Lombardia -e temiamo presto in altre parti del Paese- in queste ore, insieme al doveroso senso di responsabilità, all'impegno strenuo, alla stanchezza e alla paura, si sta facendo spazio anche la rabbia! In molti si sentono abbandonati da un sistema che fino ad oggi li ha sfruttati oltre i limiti, facendoli lavorare costantemente in carenza di organico e al momento con dispositivi di protezione spesso inadeguati, per qualità e quantità, mettendone a rischio la salute. Un sistema che sta negando persino la possibilità di un tampone di controllo a chi lavora a corsia, a stretto contatto con pazienti e colleghi infetti; una circostanza che ha aumentato la rabbia nel leggere che, ad esempio in serie A, ad ogni caso di positività, viene effettuato il tampone a tutta la squadra e all’intero staff» scrive l’Usb, lanciando l’hashtag #EroiUnaMinchia
Un'epidemia africana
I tamponi al personale medico a rischio devono essere fatti, ripetono in coro da più parti. E per una ragione epidemiologica ancor prima che deontologica. «Bisogna evitare che i colleghi diventino dei superdiffusori. Se sono positivi e non lo sanno possono infettare tantissime persone, tutti i pazienti che vedono in questi giorni». Appelli inascoltati fino ad oggi, mentre quella italiana inizia ad essere descritta in letteratura scientifica come un’epidemia “africana”, perché c’è stata una grandissima quantità di focolai in ospedale. «Non c’è dubbio che la virulenza registrata al nord sia legata alle strutture sanitarie — spiega Anelli — Non ha funzionato il sistema di pre-allerta che doveva essere messo in campo fin dai primi di gennaio attraverso la protezione del personale sanitario».
Calabria a rischio
È successo in Lombardia e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, ma rischia di succedere in tutte le altre regioni italiane, che di ora in ora vedono crescere il numero di casi. Anche in Calabria, forse impreparata come mai, il rischio c’è. Anzi, c’è già stato. È successo all’ospedale di Melito Porto Salvo, che fa capo all’Asp di Reggio Calabria, dove solo dopo la morte è stato diagnosticato il Covid 19 ad un paziente che non solo ha avuto contatto con un’équipe del 118, ma che è anche entrato regolarmente in pronto soccorso. È successo al Gom di Reggio Calabria, dove un paziente lungodegente di un reparto si è scoperto positivo al coronavirus solo dopo diversi giorni di ricovero. È successo a Crotone, dove un sanitario del pronto soccorso è risultato positivo ai test. Si è rischiato a Castrovillari, dove il decesso di due pazienti sospetti Covid 19 – in seguito smentiti – ha fatto tremare l’intero nosocomio.
Silenzio stampa e commissariamento
Rischi espressione di prassi forse non all’altezza dell’emergenza in corso, ma su cui la Regione non si esprime. Al momento, l’unica ordinanza al riguardo impedisce ai vari centri ospedalieri di discostarsi dalle linee guida nazionali e regionali (quali?), mentre una precedente obbliga i sanitari al silenzio stampa. A quanto pare – e l’espressione è d’obbligo – nei reparti e ospedali calabresi a rischio tutti i tamponi effettuati hanno dato esito negativo. Quanti ne siano stati fatti, in che misura siano stati tutelati personale e pazienti, con che criteri siano stati sottoposti a tampone e in che misura sia stata screenata la rete di contatti dei positivi, non è dato sapere. Stesso, se non maggiore mistero rimane sul caso di Melito. Dall’Asp alcuna notizia è giunta né sulla possibile catena epidemiologica del contagio, né sulla dinamica, né sulle eventuali strategie di contenimento.
Bollettini sballati, domande senza risposta
E la Regione? Quotidianamente si trincera dietro un bollettino che spesso e volentieri fa a botte con quelli delle Asp e dei Gom. Per il resto si sa che sulla carta ci sono 400 posti in più di terapia intensiva, ma – si apprende da interviste a tv nazionali della presidente Jole Santelli - «i macchinari arriveranno fra 45 giorni». Che si stanno «spostando reparti per creare nuovi posti» ma quali e quanti non è dato sapere. Il tormentone sono le terapie intensive e si promette di individuare eventuali beni confiscati per quarantene o isolamenti. Tempi? Mistero. Nel frattempo i casi crescono, mentre l’idea di requisire le tante, già operative cliniche private presenti sul territorio – che il governo Conte sta valutando - non sembra neanche sfiorare chi dovrebbe gestire l’emergenza. Forse a causa del peso specifico del partito della sanità privata ben rappresentato all'interno delle istituzioni locali?
Il partito che non c’è ma decide
Domanda lecita, ma non c’è nessuno che risponda. Al momento si possono solo registrare convenevoli. Con i vertici della Regione che si dicono grati per il buon cuore (peloso) dei signori della salute privata convenzionata e vari colossi delle cure a pagamento che in queste ore si sono dettipronti a mettere a disposizione i posti «sotto utilizzati» nelle proprie strutture. Magari per battere cassa dopo? Idee per evitare che succeda? Si vuole evitare che succeda? Non è dato sapere. Pare che a Catanzaro siano più che altro impegnati a discutere di caselline di Giunta. E stando alle indiscrezioni, i papabili neoassessori non sembrano poi esser così in grado di portare un valore aggiunto nella gestione dell’emergenza.
Evitare i contagi nei reparti
E idee per il contenimento del contagio? A quanto pare, ci si affida al decreto “Restoacasa”, alla responsabilità dei singoli e magari alla buona sorte. Ma di strategie epidemiologiche per limitare la diffusione del virus, in primo luogo nelle strutture sanitarie non se ne sente parlare. Dai singoli centri sanitari, la cui iniziativa è stata bloccata per decreto regionale le proposte arrivano: nessun ricovero senza tampone anche nel caso di asintomatici, zone dedicate per i pazienti da testare prima del loro ingresso in corsia con percorsi differenti per urgenze e terapie obbligatorie ordinarie, ingressi dedicati per gli immunodepressi che sono obbligati a far ricorso a cure ospedaliere.Toccherà alla Regione esprimersi.Quanto meno in teoria e auspicabilmente in tempi rapidi. Anche perchè il coronavirus non si ferma per il week end.
Tamponi agli asintomatici
E ipotesi su come limitare la diffusione del Covid 19 all’esterno dei nosocomi? Non è dato sapere. Di certo, alla luce degli “incidenti” come Melito, qualcosa non sta funzionando. E sarà la curva dei contagi a dire se misure e prassi adottate fino ad oggi sono sufficienti. Di certo, dalla Lombardia, cuore dell’emergenza, arriva la voce chiara di Massimo Galli, responsabile di Malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano, che si dice «assolutamente d’accordo» con la prassi di sottoporre a tampone anche gli asintomatici adottata in Veneto, dove pur in presenza di un focolaio non si è assistito all’aumento esponenziale di casi registrato in Lombardia. «È utile per il contenimento identificare persone che altrimenti non lo sarebbero e metterle in quarantena». Non si tratta di una stima “ad occhio” ma di uno studio scientifico, spiega Galli, di recente pubblicato sulla nota rivista Lancet, secondo cui «se non si riesce a quarantenare almeno il 70% dei contatti di un positivo non si ferma la malattia in 3 mesi». Parole chiare. Ma la Lombardia è lontana, per adesso. E come diceva il tizio che precipitava dal grattacielo di 100 piani, arrivando all’80mo: «fin qui tutto bene»