I clienti reggini di un’agenzia di viaggi legati alle cosche. I controlli e gli 800mila euro nascosti nel doppiofondo di un’auto. I punti di raccolta nella Chinatown meneghina. Come funzionava il sistema
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Nel piazzale dell’agenzia che organizza viaggi in pullman per Tirana, gli investigatori rilevano un via vai di uomini che, «dopo aver parcheggiato», prelevano «dai veicoli delle valigie o dei pacchi, anche di notevole dimensione»: quelle valigie finiscono nelle mani di uno dei due titolari della ditta.
Nell’elenco dei potenziali clienti la polizia giudiziaria individua «anche alcuni personaggi di origine calabrese, contigui alle famiglie di ‘ndrangheta». L’ombra dei clan calabresi permea tutta la nuova inchiesta dell’antimafia di Milano: 20 arresti tra presunti narcos responsabili di aver smerciato tonnellate di droga. Anche in quello spiazzo le investigazioni trovano tracce che conducono in provincia di Reggio, dove i clan che dirigono parte del business hanno storiche roccaforti.
C’è un 41enne di Cinquefrondi con precedenti penali in materia di traffico internazionale di stupefacenti (arrestato nel 2013 in Uruguay) che sarebbe contiguo a uno dei clan egemoni di Rosarno. Altro nome appuntato sul taccuino è quello di un 28enne di Locri: non ha precedenti penali ma sarebbe «noto per i suoi collegamenti alla storica ‘ndrina Strangio-Nirta di San Luca (riscontrati dai controlli sul territorio, che spesso lo avevano colto in compagnia di membri di quella famiglia)».
Quelle presenze, per i magistrati della Dda di Milano, non sono casuali: l’ipotesi è che quella ditta sia uno dei centri di smistamento dei soldi raccolti con il narcotraffico. Milioni di euro. Tracciando i movimenti di uno degli indagati, vengono ricostruiti spostamenti «in diverse località italiane (Pisa, Rimini, Firenze, San Marino, Brescia, Alessandria, Parma, Verona, Bergamo)». È un incidente stradale a svelare un dettaglio essenziale: una delle auto utilizzate per gli spostamenti ha un doppiofondo. La scoperta convince gli investigatori a effettuare un controllo mirato sul mezzo guidato dall’uomo e diretta verso il Nord Italia. L’ispezione conferma la presenza di un vano «ricavato sotto il pianale dei sedili posteriori e azionabile tramite un congegno elettronico». In quello spazio c’è «un ingente quantitativo di banconote di diverso taglio»: sono quasi 800mila euro, in parte (14mila euro) nel vano portaoggetti, il resto – suddiviso in 15 pacchetti – nascosto sotto il pianale dei sedili posteriori.
È così che la Dda meneghina scopre uno dei sistemi utilizzati dalla gang per riciclare i soldi ricavati dal narcotraffico. Non il principale: la chiave per trasferire il denaro erano i sistemi di riciclaggio affidati a canali bancari sommersi (quasi) monopolizzati da cinesi. L’inchiesta individua alcuni punti di raccolta: un bar gestito da cinesi e due appartamenti, uno dei quali situato «nel cuore della Chinatown milanese». Ricostruito anche il modus operandi per questo sistema di riciclaggio: «I contante veniva depositato dai committenti italiani attraverso i propri corrieri, muniti di vetture dotate di doppiofondo e confezionato, normalmente, in pacchi da 10mila euro e avvolto nel cellophane trasparente». È la lettura delle chat criptate a raccontare il modus operandi del gruppo: il denaro veniva recapitato nelle mani dei cinesi attraverso lo scambio di parole di riconoscimento, precauzionalmente comunicate in chat o, quasi sempre, attraverso l’esibizione del seriale di banconote da 5 euro che, in molti casi, a titolo di ricevuta, venivano contrassegnate con le cifre del denaro oggetto della consegna».
Sono gli stessi investigatori a sottolineare come «il canale “cinese” non fosse l’unico sistema per fare arrivare il denaro ai fornitori, aggirando le norme vigenti in materia di riciclaggio». In altri casi, infatti, il denaro sarebbe stato «trasportato fisicamente dall’Italia verso altre nazioni, sicuramente anche in Albania».
Due canali – cinese e albanese – attraverso i quali sarebbero transitati milioni di euro. Somme che sarebbero «state puntualmente fotografate prima di ogni loro trasferimento, rendendo possibile una precisa ricostruzione, in termini economici, del risultato della vendita» della droga. Il totale, per i pm, raggiunge i 12 milioni 319mila euro. Al gruppo “calabrese” Trimboli-Gullì sarebbero ascrivibili 5 milioni di euro; 3 milioni 719mila sarebbe la quota commercializzata dal gruppo Rozzo; 3 milioni 600mila euro per il gruppo Grifa. A questa cifra andrebbero aggiunti almeno altri 2,7 milioni di euro «movimentati in autonomia dall’indagato Luca Lucci». Lucci, capo ultrà milanista già coinvolto in storie di droga, li avrebbe “mossi” «a fronte della vendita dell’hashish, attraverso l’opera della persona di sua fiducia e cioè dell’indagata Roberta Grassi, che aveva operato in qualità di collettore per la raccolta del provento illecito per poi recapitarlo nelle mani» dell’uomo che ha guidato la tifoseria rossonera negli ultimi anni. Secondo alcuni proprio grazie al patto stretto con le famiglie calabresi. La Calabria a Milano ritorna sempre, specie quando si tratta di affari criminali a sei zeri.