«La sua morte lascia un vuoto che sarà difficile colmare». Ha parlato così il sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo, all'uscita della chiesa San Benedetto Abate, dove ieri si sono tenuti i funerali del giornalista Amedeo Ricucci. Il reporter di guerra, in Rai dal 1993, si è spento in una camera d'albergo a Reggio Calabria dopo una lunga malattia. Ricucci si trovava in riva allo Stretto per girare l'ennesimo reportage sulla 'ndrangheta, ma la mattina dell'11 luglio si è sentito male e si è accasciato tra le braccia dell'operatore che era andato a sincerarsi delle sue condizioni di salute. La cerimonia funebre è stata officiata da don Ennio Stamile e don Loris Sbarra.

Dolore e commozione

La cerimonia è cominciata alle 17 in punto innanzi a una folla commossa. Tante le personalità presenti che vi hanno preso parte, oltre ad amici e parenti. Ai primi banchi, con gli occhi lucidi, erano seduti tanti suoi colleghi, venuti da ogni dove a portare la testimonianza di un uomo umile e buono che ha dato tutto se stesso per il suo lavoro. Non c'era, invece, il presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, a causa di impegni pregressi. C'era però Luigi Lupo, in rappresentanza del Circolo della Stampa di Cosenza, delegato dal presidente Franco Rosito. Si sono registrati attimi di imbarazzo alla fine della cerimonia quando l'officiante, don Ennio Stamile, non ha concesso la parola al sindaco di Cetraro, che aveva chiesto di intervenire. Si è comunque trattato di un mero equivoco, che si è risolto successivamente con tanto di scuse.

Il ricordo di don Ennio Stamile

Don Ennio Stamile e Amedeo Ricucci si conoscevano bene. Erano amici da tempo e avevano condiviso persino un'esperienza in Africa. Proprio a lui, lo storico inviato di guerra, aveva confidato la volontà di stabilirsi nuovamente a Cetraro. Da poco aveva avviato i lavori di ristrutturazione della sua casa in Calabria e piano piano stava traslocando dalla sua dimora romana. Al parroco avrebbe anche confidato di volersi impegnare per la sua città, una volta andato in pensione, e di non escludere l'entrata in politica. Dopo aver girato il mondo e raccontato l'orrore delle guerre, Ricucci aveva intenzione di cambiare le cose nel posto in cui era nato e dove, di tanto in tanto, tornava per riabbracciare i suoi famigliari e prendersi una pausa dal dolore che ogni giorno era costretto a raccontare. Come nella primavera del 2013, quando fu liberato da una prigionia di undici giorni in Siria e tornò a casa per rimettere insieme i pezzi della sua anima. I suoi concittadini, e tanti suoi ex compagni di scuola, accolsero il suo arrivo al paesello come una star, ma lui, racconta chi lo ha conosciuto, non era avvezzo alla gloria e alla luci della ribalta. Anzi, ne era quasi infastidito. Don Ennio, che fu al suo fianco anche in quella occasione, ricorda perfettamente la sua reazione: «Non fate di me un santino». Ricucci non si sentiva né idolo né martire. Il vittimismo non era nelle sue corde e d'altronde quel mestiere, che tanto gli ha dato e tanto gli ha tolto, lo aveva scelto con tutte le forze. Anche dopo il 20 marzo 1994, quando in Somalia, a pochi metri da lui, si consumò l'omicidio della collega Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin, o dopo 13 marzo del 202, quando in sua presenza si verificò l'uccisione del fotografo del Corriere della Sera, Raffaele Ciriello, a Ramallah.

Il ricordo dei colleghi

Ieri tra i banchi della chiesa erano seduti tanti suoi colleghi. Uno di questi, Alessandro Gaeta, ha preso la parola per ricordare quanto il cronista di guerra fosse umile e quanto amore avesse lasciato in ogni posto in cui è stato. Amedeo Ricucci amava follemente il suo lavoro, al punto da affidargli il suo destino e sperare di esserne salvato. A Gaeta, che come tanti colleghi gli suggeriva di rallentare un po', il reporter della Rai aveva risposto che il suo lavoro lo avrebbe curato e salvato dalla malattia. La sorte, tre anni fa, gli aveva inflitto un colpo bassissimo e gli aveva fatto scoprire un tumore, che in pochi mesi erano diventati due. L'ultimo lo aveva attaccato ai polmoni. Da un paio di giorni le sue condizioni di salute erano peggiorate vistosamente. Ma lui di mollare la presa non ne aveva voluto sapere ed è rimasto al suo posto, quello della trincea, fino all'ultimo istante della sua vita. Quando è spirato era in una stanza d'albergo di Reggio Calabria. L'operatore era andato a sincerarsi delle sue condizioni e aveva notato che stava molto male, tanto che la morte è sopraggiunta nel giro di pochi minuti. Ieri l'ultimo, doloroso saluto, che ha accompagnato il feretro al sagrato con un lungo applauso.