La nomina del magistrato calabrese spezza la tradizione di togati autoctoni alla guida dell'ufficio. Ecco i profili dei suoi predecessori
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Il Liceo Bernardino Telesio a Cosenza, nel riquadro il nuovo procuratore Vincenzo Capomolla
Definirlo “Papa Nero” sarà un po' eccessivo, ma di certo la nomina di Vincenzo Capomolla a procuratore della Repubblica di Cosenza, interrompe una tradizione che da sessant’anni a questa parte sembrava quasi inviolabile: quella di un capo della magistratura inquirente nato e cresciuto nella città dei bruzi. Un'equazione da calibrare, considerato che due di loro – Ettore Cetera e Oreste Nicastro – proprio di Cosenza non erano: originario di un centro dello Sibaritide il primo, di Cleto il secondo. Sono, però, eccezioni che confermano la regola, ne aggiustano il tiro: anche loro, infatti, si sono seduti, in gioventù, tra i banchi del liceo classico cittadino. Capomolla, insomma, è il primo procuratore non di stretta osservanza “telesiana”.
Ettore Cetera
Chi lo ha preceduto, è stato protagonista e al tempo stesso testimone dei tempi suoi. Parlare di loro equivale a raccontare la storia del XX secolo e del primo quarto del nuovo millennio. Ettore Cetera al Liceo "Telesio" c'era legato a doppio filo perché lì suo fratello insegnava l'Educazione fisica. S'insedia alla guida della Procura al principio degli anni Sessanta, l'epoca del boom economico, e non a caso le sue inchieste copertina rimandano agli scandali edilizi e a quello della Cassa di risparmio di Cetraro, con tanto di scalpore per l'arresto di un sindaco Dc. Sono gli anni della cappa democristiana che avvolge ancora la città e che sarà spazzata via dalle turbolenze del decennio successivo.
Saverio Cavalcanti
Al timone dell'ufficio, gli succede un galantuomo che si chiama Saverio Cavalcanti, già pubblico ministero con il vecchio procuratore. Naviga in acque a dir poco agitate. Il crimine organizzato e l'odio politico lasciano impronte profonde e dolorose. Si apre la stagione dei sequestri di persona, che a Cosenza si traduce nel rapimento del piccolo Francesco Cribari nel 1974 e cinque anni dopo in quello di Marco Forgione. Il 1979 è anche l'anno dei carabinieri del generale Dalla Chiesa, il loro blitz antiterrorista all'Unical chiude simbolicamente il decennio e anche l'epoca di Cavalcanti. Un decennio più che emergenziale. Per tutta la durata del suo mandato, ha potuto lavorare insieme a un solo giudice istruttore – Carmelo Copani e poi Fabio Mastroianni – nonché contare soltanto su due sostituti: Oreste Nicastro e Alfredo Serafini. Il futuro appartiene a loro.
Oreste Nicastro
Oreste Nicastro prende le redini della Procura quando la guerra di mafia è all'acme della sua ferocia. Il 5 marzo del 1982 si trova anche lui, per puro caso, nel vecchio carcere di Colle Triglio, quando l'uccisione del detenuto Mario Lanzino genera una rivolta che lo coglie di sorpresa, ma non lo trova impreparato. Armato fino ai denti, si asserraglia in una stanza dell'edificio e da lì guida le operazioni antisommossa. Sono anni difficili: ai tanti omicidi che insanguinano le strade, fanno seguito arresti che quasi mai si traducono in condanne. Gli strumenti d'indagine non sono così sofisticati. E quelli sono anche anni di frustrazione. L'affinità con il proprietario dell'hotel “La Perla” di Cetraro genera imbarazzi, una parentela scomoda e acquisita con il killer Peppino Vitelli gli rotola tra i piedi, prima che una brutta malattia lo metta fuori gioco in anticipo. Era «culturalmente» contrario all’ergastolo.
Alfredo Serafini
Alla sua morte gli subentra Alfredo Serafini. È anche lui un procuratore con la pistola, perché viene dalla trincea degli anni Settanta. Dopo l’epopea da pm, arriva per lui la chiamata da giudicante, a presiedere la Corte d’assise di Cosenza, poi l’esperienza da procuratore a Castrovillari. Ha l’equilibrio che serve per governare un decennio “liquido” come quello dei Novanta. Alcune inchieste su politica e appalti lasciano il segno sulla città, ma quelli sono soprattutto gli anni del maxiprocesso “Garden” e del conflitto di competenze con la neonata Dda di Catanzaro. Lo scontro si fa durissimo, raggiunge l’acme con la gestione dei pentiti, vera novità di fine secolo, e approda persino in Parlamento. A risolvere la controversia ci penseranno i Tribunali, oltre che la signorilità dei protagonisti, la sua in primis. L’inchiesta sull’omicidio di Pino Chiappetta fotografa l’incrocio letale tra imprenditoria, politica e ’ndrangheta, il fallimento dell’operazione “No global” arriva ai titoli di coda di una carriera lunga e onorata. Esce di scena con il consueto stile, in piedi tra le macerie di un secolo oramai alla fine.
Dario Granieri
Gli subentra Dario Granieri, un altro della vecchia guardia togata. Già procuratore a Rossano, in precedenza giudice istruttore a Cosenza negli anni caldi della guerra di mafia. È uomo di Legge, ma soprattutto di Diritto. L’ufficio che dirige affronta di petto i reati caldi del momento: l’assenteismo negli uffici pubblici, le professioni esercitate in modalità abusive. Risolve alcuni brutti omicidi che tra il 2008 e il 2010 levano il sorriso alla città: quello dei “Ragazzi di vita” di piazza Amendola, il dramma della gelosia di via Cattaneo. «La Giustizia può essere molto lenta» ama ripetere con l’aplomb che lo contraddistingue, «ma prima o poi arriva».
Mario Spagnuolo
Con Mario Spagnuolo il discorso si fa attuale. Nel 2016, il suo è un ritorno alle origini in un tribunale, quello di Cosenza, che lo ha già visto operare da magistrato giudicante prima e da sostituto di Serafini poi. Il suo marchio sulla cronaca – e sulla città - lo ha impresso da Aggiunto della Dda di Catanzaro, mettendo la firma su inchieste che seppelliscono la vecchia criminalità cosentina (“Missing”) e altre che azzoppano la nuova (“Anaconda” e la saga di “Terminator”). Da procuratore “ordinario”, invece, va al cuore del problema: punta i reati finanziari, le bancarotte fraudolente in primis, e soprattutto la droga. Le indagini in materia, sue e dei suoi sostituti, trasformano l’ufficio in Procura antimafia “aggiunta”. All’approccio assertivo, preferisce quello «problematico». Prima di chiedere l’arresto di qualcuno, ci pensa sempre due volte.
Con lui si chiude l’era dei procuratori cosentini che, diversamente, si sarebbe perpetuata con la nomina di Vincenzo Luberto, un altro che nell'ultimo ventennio ha dato una spallata decisiva ai clan di tutta la provincia. Cambiano i tempi e assieme ad essi, gli uomini, ma una certezza resta immutata: che oggi, come sessant’anni fa, a determinare se in meglio o in peggio non sarà un fatto di clima. Ma di voglia.